Piccoli sorsi di acqua misti ad un sapore dolciastro mi scivolano nella gola fino a raggiungere lo stomaco. Non vedevo l’ora che la notte calasse sulla nostra casa e che i miei genitori cominciassero a russare per andare in cucina. Ormai si addormentano sempre più tardi. Magari se ne sono accorti. Ma non mi importa. Queste gocce mi servono. Mi aiutano a dormire. E quando dormo non penso. Non penso alla scuola, non penso a tutto quello che mi fa soffrire. Dormo e basta. La cosa più difficile è fare in modo che mia madre non si accorga che le gocce calano più in fretta di quanto sarebbe necessario. È stata lei a farmele prendere una volta. La prima volta. La prima volta che mi ero svegliata nel cuore della notte con il cuore che mi martellava in gola e non riuscivo più a prendere sonno. “Prendi queste” mi aveva detto, “per una volta non succede niente”. Quel liquido dolce aveva fatto piano piano decelerare i battiti del cuore ed io mi ero gustata il dolce torpore che subentra quando i muscoli si rilassano, dopo una lunga fatica. Mi ero lasciata assorbire dal sonno. È una sensazione che non sono più riuscita a dimenticare. L’essere lontana dal mondo, come se potessi guardare tutto da dietro una finestra. Improvvisamente ciò con cui prima avevo imparato a convivere, gli attacchi di panico, l’insonnia, l’ansia, mi erano divenuti insopportabili. Detestavo la sensazione del cuore che accelerava il battito, del respiro che diventava più affannoso. E così avevo cominciato a prendere da sola quelle gocce nel cuore della notte. All’inizio quattro o cinque. Poi non bastavano più. Adesso ne prendo almeno venti. Quasi tutte le sere. Ogni tanto cerco di inventarmi una scusa con mia madre: la boccetta mi è caduta urtandola per sbaglio; non ti sei accorta che la scadenza era passata. In questo modo cerco di dissimulare quelle quantità sospette che ogni giorno si aggiungono a loro stesse. A volte mi domando se saprei vivere anche senza. Ma adesso non ce la faccio. A volte anche solo il pensiero di non prenderle mi fa accelerare il battito del cuore; poi il battito arriva alla testa; e dalla testa agli occhi. E poi vedo tutto nero. Il nero è il punto di non ritorno, quello dal quale la fatica per risalire è troppo grande. Una volta sono rimasta in quell’oscurità per delle ore. Non voglio più tornarci.

Non saprei dire quanto tutto questo ha avuto inizio. Forse quando sono ricominciate le lezioni a scuola in presenza. Mi dava sicurezza rimanere dietro alla telecamera. Invece, adesso, è come se tutti mi tenessero gli occhi puntati addosso. Come se fossero in attesa di un mio errore. È come se quel cuore che ogni tanto batte senza controllo gli altri lo potessero vedere. Perciò a scuola ci vado, i miei genitori non mi permetterebbero di certo di rimanere a casa. Ma ogni giorno per me è come scalare una montagna. E la stanchezza che si riversa nel mio corpo ogni sera è tanta che il mio cuore, la mia mente, non riescono più a reggerla.

Per questo cerco quelle gocce. Per placare quel bisogno di quiete che non riesco più a trovare in nessuna cosa, in nessun posto. Per contrastare quell’incessante rumore di sottofondo con un po’ di silenzio che mi restituisca quella pace che a sedici anni mi sembra irrimediabilmente perduta.

Monica Betti, Insegnante di Scuola dell’infanzia

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