Una studentessa universitaria di diciannove anni si è suicidata nel bagno della propria università, dopo aver lasciato una scritta: “Nella vita ho fallito tutto”.
Per me, che insegno alla scuola dell’infanzia, quella scritta è un pugno dritto allo stomaco. La tragedia che ha colpito non solo la famiglia di quella ragazza, ma la società intera, non riguarda unicamente il gesto drammatico e irreversibile. Riguarda soprattutto le circostanze che lo hanno provocato e che, in parte, risiedono proprio in quell’unica frase, anzi, in una parola: fallimento.
La sensazione che, con il tempo, diventa certezza, di aver sbagliato tutto nella vita, di aver costruito un castello di carte che può crollare da un momento all’altro è come un macigno che grava sulle spalle dei nostri ragazzi. Al di là della vicenda specifica, come società non possiamo rimandare oltre un’assunzione di responsabilità: il senso di tragico fallimento che alcune persone si portano dentro non compare magicamente ad un certo punto della vita. Si costruisce, giorno per giorno, fin dall’infanzia. Con le parole, con gli sguardi, con i gesti.
Lo sappiamo bene noi insegnanti che ogni giorno ci adoperiamo per costruire percorsi di crescita che sappiano andare oltre le prestazioni. La vita non è la gara di eccellenza nella quale la società, in maniera subdola e mistificata, vuole costringerci. La vita è una continua ricerca di benessere e di felicità, che va costruita con tenacia e resilienza. E il compito degli adulti è proprio quello di accompagnare i bambini prima, ed i ragazzi poi, in questo non semplice percorso.
Sentiamo spesso parlare di autoefficacia, ma spesso la confondiamo con intraprendenza. Il bambino che sperimenta un senso di autoefficacia non è un bambino che ha aspettative di riuscita. È piuttosto un bambino che ha attraversato i contesti, a volte riuscendo ed a volte sbagliando, ma che non è uscito sconfitto dall’incontro o dallo scontro con la realtà. È un bambino che, sostando anche nell’errore e nella sofferenza, o rabbia che questi provocano, è riuscito a maturare anche una capacità di riparazione. E, quindi, il bambino sa che, a prescindere dal risultato, saprà impiegare il meglio di sé per affrontare un contesto o una nuova sfida.
Non so bene quale sia stato il passaggio culturale per il quale abbiamo interiorizzato che la sfida implichi necessariamente fatica e sofferenza. La sfida deve innescare motivazione, autodeterminazione, consapevolezza e fiducia nelle proprie capacità.
La morte di questa ragazza ci rende tutti in qualche modo responsabili. Dobbiamo tutti riflettere a lungo: genitori, amici, insegnanti, influencer, persone. Dobbiamo riflettere e fare mente locale a tutte le volte che avremmo potuto accompagnare bambini e ragazzi nei loro percorsi di crescita mettendoci al loro fianco nel fronteggiare le sfide e non semplicemente aspettandoli al traguardo. A tutte le volte che avremmo potuto rinforzare, gratificare la fatica che alcuni fanno ad affrontare determinate situazioni, perché la verità è che “facile” e “difficile” non sono etichette oggettive, e invece l’abbiamo sminuita, perché ci hanno inculcato che a determinate età corrispondono determinate prestazioni.
Il termine prestazione evoca il concetto di misura. Misuriamo tutto. Il tempo, le capacità, il peso, l’altezza, la socialità, l’introversione, l’intelligenza, la fame. Misuriamo, quantifichiamo e giudichiamo. E non siamo consapevoli che alcuni giudizi pesano come sentenze senza possibilità di appello.
Dobbiamo avere il coraggio di saltare la barricata. Di ripercorrere a ritroso le fatiche che anche noi adulti abbiamo fatto. E dobbiamo accettare ed accogliere quella fatica e non stigmatizzarla, come invece ci hanno insegnato. Possiamo costruire strade diverse. Possiamo costruire destini diversi.
E dobbiamo farlo partendo da noi: dalla rilettura della nostra vita, del nostro agire quotidiano. Trovando in noi il coraggio di invertire la rotta, ogniqualvolta sia necessario.
Monica Betti insegnante di Scuola dell’Infanzia