Quando Zarlakht sentì il grido proveniente dall’esterno, capì che qualcosa di irrimediabile era accaduto. E che riguardava Arshad. Quando si alzò di scatto, la sedia le cadde da dietro provocando un rumore sordo, simile a quello dei battiti del suo cuore.
Quando corse fuori cercò suo figlio, il suo giovane figlio di sette anni, con lo sguardo, senza vederlo da nessuna parte. Poi gli occhi si appoggiarono sul pozzo vecchio, ma scosse la testa. Era sempre chiuso da quando la sorella di suo marito, molti anni prima, ci era finita dentro. Una terribile disgrazia che le era costata la vita. Cercò di allontanare quei brutti pensieri. Bisognava trovare Arshad. Si avvicinò al confine di quel terreno, per vedere se lo avesse oltrepassato, nonostante i divieti di suo padre. Quando avanzò, prima lentamente e poi di corsa, i suoi occhi si sbarrarono seguendo un presentimento terrorizzante. Il pozzo era aperto.
Arshad era già morto. Le urla di Zarlakht si sentivano a metri e metri di distanza. La sorella più piccola Aisha piangeva disperata, abbandonata sul lettino in casa. Piangeva perché era rimasta sola e, forse, perché anche lei sapeva dentro di sé che era accaduto qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la loro vita.
Quella notte il marito picchiò a sangue Zarlakht, per aver lasciato solo Arshad, per non aver chiuso quel pozzo, per non aver scongiurato la morte di quel figlio maschio che rappresentava la sua unica speranza di discendenza, visto che dopo la nascita di Aisha dei figli non ne erano più arrivati.
A nulla valse dire che non aveva idea del perché quel pozzo fosse aperto, che l’aveva perso di vista solo per un attimo. Niente di quello che poteva dire avrebbe cambiato la realtà dei fatti. Il dolore e il senso di sconfitta, in Pakistan, è solo quello dei maschi. Non esiste il dolore delle donne, delle madri. Se fosse morta Aisha sarebbe stato mille volte meglio. Non per le botte, a quelle c’era abituata. Nessuno ci fa caso se muore una femmina. Ma se muore un figlio maschio, l’unico che hai, si perde l’onore di fronte a tutta la comunità. L’unione tra un uomo e una donna deve dare figli maschi punto e basta. Ora non contava più niente suo marito come uomo e lei…. beh, lei non aveva mai contato molto.
Il giorno successivo portava ancora i segni delle percosse che le sarebbero rimaste sulla pelle per molte settimane. “Io voglio un figlio maschio” fu l’unica cosa che suo marito le disse. Lei abbassò lo sguardo, in segno di rispetto, ma anche di dolore e sconfitta. “Tu devi crescere un figlio maschio” ribadì lui, guardando Aisha.
Gli occhi di Zarlakht si spalancarono: “Ma è solo una bambina” riuscì a sussurrare. “Proprio per questo” sancì il marito. E se ne andò.
Zarlakht si strinse le spalle, dolente e rassegnata. Una vita da maschio è migliore di una vita da femmina. Forse non tutto il male viene per nuocere. Prende per mano Aisha e la accompagna sul letto del fratello morto. Prende i suoi vestiti maschili e comincia lentamente a svestire la piccina.
“Questi sono i vestiti di Arshad” protesta Aisha. “Proprio così Arshad” conferma la madre. Aisha non protesta, ha già capito che non è il caso di farlo, ma è confusa. Perché sua madre l’ha chiamata Arshad?
Poi la guarda mentre fa scomparire tutte le sue cose: gli abiti femminili, il letto, i piccoli monili che ogni tanto le consentiva di indossare. Piano piano scompare tutto ciò che era appartenuto all’esistenza di uno dei due fratelli. Paradossalmente, non quello del fratello morto, ma della sorella ancora viva.
“Da oggi ho un solo figlio. E sei tu Arshad”, le dice la madre al termine del suo accurato lavoro.
Nessuno ci farà caso. In quel pozzo è morta Aisha. Un tragico destino che ha accomunato due figlie femmine di quella famiglia. Prima la zia, poi la nipote. Capitano queste cose.
Ora bisogna pensare ad Arshad. Bisogna educarlo ad acquisire le giuste movenze ed anche i giusti interessi. Deve dimenticare di essere femmina. “Mamma sono Aisha, sono viva!” grida la bambina. Zarlakht si avvicina a lei e la guarda negli occhi: “Tu sei Arshad. Aisha è morta. È caduta ieri nel pozzo”.
Monica Betti