Quello dell’abbigliamento è diventato oramai un argomento complesso, capace di dividere, in ambito scolastico, la comunità dei docenti, gli alunni e persino le famiglie. La società contemporanea considera oramai lecito qualsiasi tipologia di vestiario che risponda al gusto individuale e rispecchi pienamente la personalità di chi lo indossa. Sono saltati molti dei paletti e delle convenzioni che rendevano adeguata una certa tipologia di vestiario al luogo di lavoro, un’altra alle cerimonie, un’altra ancora al tempo libero. È per questo che una ciabatta di plastica può diventare non solo un elemento di tendenza, ma anche essere vista come una calzatura dotata di una certa eleganza, se abbinata al giusto outfit. Se questo sia giusto o sbagliato è difficile definirlo. Ciò che invece è accertato è che la scuola è uno dei pochi contesti che, ancora oggi, presenta un regolamento il quale, spesso e volentieri, esprime un rimando esplicito nei confronti dell’abbigliamento corretto da indossare durante le lezioni. Vengono considerati inadeguati gonne e pantaloni troppo corti, top e maglie che lascino completamente scoperte spalle e pancia e le ciabatte infradito. Basta una regola per condividere il pensiero complesso che vi è alle spalle? Ovviamente no. Al punto che, a volte, tale regola viene tacciata di medievalismo, di non rispettare la libertà di espressione dell’individuo, di voler aumentare la distanza tra la scuola ed i ragazzi. Pertanto, a scuola l’abito fa il monaco? La risposta è no anche a questa domanda. Il pensiero per il quale la regola corrisponda ad un giudizio costituisce un bias cognitivo. Il fatto di considerare non adeguato un certo tipo di abbigliamento all’interno dei locali scolastici non significa giudicare non adeguata la persona che lo indossa. Non è un tentativo di oscurare i ragazzi. Anzi, è l’esatto opposto. È un tentativo di metterli al centro. E di mettere al centro non sempre e non solo una corporeità che necessita di un tempo (e anche di un luogo) adeguato per essere scoperta, per essere valorizzata, perché essa diventi l’espressione di ciò che si sviluppa nella mente e nell’anima. Il corpo è la parte visibile. L’anima no. Ma quanto pesa la parte invisibile su quella visibile? Forse il regolamento scolastico può non apparire il contesto migliore per intavolare un ragionamento che è ampio e articolato. È sicuramente vero che una regola assume la connotazione di una comunicazione a senso unico. Ed i ragazzi hanno bisogno di dialogo e di confronto. Essi, però, non vengono preclusi. Il regolamento, più che un’imposizione, deve essere visto come l’assunzione di una posizione e di una responsabilità. In poche parole, la scuola ci mette la faccia. Lo fa con gli strumenti che ha, in un’epoca storica in cui viene quotidianamente messa in discussione sotto tutti i punti di vista, persino da quelle famiglie che con fiducia dovrebbero affidarle i figli. Ma la scuola non si tira mai indietro rispetto alle opportunità di dialogo e di confronto. Come non si tira indietro di fronte a minori che necessitano di essere protetti e accompagnati in modo empatico ed amorevole, e non autoritario, alla scoperta di ciò che sono e del posto che vogliono occupare nel mondo. Distogliere lo sguardo da questo obiettivo non è onesto. Così come non è onesto fare della scuola un luogo qualunque, in cui qualsiasi regola può essere neutralizzata, salvo poi scandalizzarsi del fatto che la scuola non rispecchi più un vero luogo di educazione e di crescita. La scuola necessita di fiducia. Non va minacciata e svilita, ma sostenuta e amata.
Monica Betti