SCV. Tre consonanti che non mi dicevano niente finchè non le ho viste sul mio biglietto aereo: SUCEAVA, piccolo aeroporto al nord della Romania, vicino al confine con l’Ucraina.

Il confine è a Siret, 50 km più a nord e nella mia prima domenica pomeriggio il container in cui distribuiamo medicinali è affollato. La fanno da padroni centinaia di corvi che girano e gracchiano sulle nostre teste, anche se ormai nessuno bada più a loro. Tutto è concentrato su chi passa il confine, su chi arriva dall’Ucraina, soprattutto autobus con direzioni ben precise, Bucarest, Istanbul. Non lasciano scendere i passeggeri, che vengono rifocillati con acqua e panini che i volontari della Croce di Malta portano prontamente a bordo. Se qualcuno sta male scende e viene da noi, a chiedere farmaci per il mal di testa, il mal di stomaco… per il mal di guerra, se esistessero. Tutt’intorno le varie ONG e le varie Chiese del mondo fanno a gara per accogliere nel miglior modo possibile chi arriva, pasti caldi a tutte le ore, bevande e alimenti sempre disponibili, insieme con generi di prima necessità, come pannolini per bambini, dentifrici, saponi. In una tenda c’è anche l’accoglienza per i cani e i gatti che viaggiano con i loro padroni. C’è un infopoint per dare informazioni e per trovare un posto dove dormire.

Qui non diresti di essere così vicino alla guerra, pochi kilometri più in là entri in un Paese che sta combattendo, dove stanno morendo giovani, figli, nipoti ma anche persone meno giovani con l’unica colpa di abitare in una terra bellissima quale è l’Ucraina. “Verdità”, come direbbe la mia nuova amica polacca Hania, che mi spiega che non abbiamo una parola così in italiano. Ha ragione, non riusciamo con un’unica parola a descrivere la bellezza di quel verde, alternato con il giallo delle coltivazioni di colza, con alberi rigogliosi, dove la natura mostra tutta la sua grandezza e armonia.

Attraversare il confine richiede molta pazienza, soprattutto per i tir che stanno in fila per chilometri in entrambi i Paesi. Per loro l’attesa dura giorni anche settimane, temo. Anche noi con la nostra clinica mobile andiamo di là, in Ucraina, nel paese dove molti stanno rientrando, pur rimanendo vicino alla frontiera, per stare vicino ai propri uomini, per parlare la propria lingua, per sentirsi comunque a casa anche in un camerone per sfollati. L’attesa è di qualche ora, sia in entrata che in uscita. Un controllo minuzioso dei passaporti e del camper, del bagagliaio, di quello che trasportiamo. Tutte le volte è la stessa cosa, come se fosse la prima volta.

Quando arriviamo a Cernivci nel cortile di un centro pubblico ci attendono già alcune persone in una fila silenziosa. Molte donne con bambini, molti anziani. Provi la pressione, senti i loro racconti delle notti insonni, del cuore che batte troppo forte, del rumore delle bombe che rimane nelle orecchie durante la giornata, anche a mesi di distanza. Qualche bambino impaurito che fa la pipì addosso di notte, che non vuole staccarsi mai dalla mamma, che non mangia. La tristezza e la dignità di un popolo. Le sirene di allarme aereo si susseguono, a cui nessuno fa caso, così almeno sembra durante la giornata. La vita prosegue come ogni minuto di ogni giorno, tanto il bunker che dovrebbe essere la nostra salvezza è praticamente un’angusta cantina dove forse ci stanno cinque persone, con il pericolo di farsi del male per raggiungerla tanto le scale sono sconnesse. Mi viene in mente Anna Frank, non so bene perché.  

Forse i momenti più tristi sono quelli in cui andiamo a visitare le persone che sono accolte presso strutture utilizzate per l’occasione, come un bellissimo palazzetto dello sport, se fosse adibito a palazzetto dello sport. Qui ci sono più di 30 persone, con i materassi per terra e i sacchetti di plastica vicino con i loro pochi possedimenti. La settimana precedente erano più di 150 nello stesso spazio. Tra questi cinque signore anziane, “nonnine” sole, che passano la maggior parte della giornata distese sul materasso. Provare la pressione è d’obbligo, sorridere anche, ma viene dal cuore. Una di queste mi ricorda tanto “la mia nonna” e mi fa quasi commuovere. Non riescono a pensare ad un loro futuro diverso da questo presente rumoroso, visto che i bambini che sono nel palazzetto sono scatenati e urlanti. Ed è difficile anche per noi farlo, cercando di dare speranza. Ci sarà ancora la mia casa? l’ultima volta che l’ho vista non aveva più le finestre. Sorridi e abbozzi un abbraccio, quelli a cui noi non siamo più abituati. (N.B. qui il Covid non esiste e neppure le mascherine).

Se mi chiedi cosa ho fatto qui: la persona umana, e poi il medico, e anche il pediatra. Ho dato e ho ricevuto sorrisi, insieme con medicine. Mi sono messa le orecchiette da topo per far ridere un bambino. Ho distribuito un chilo di caramelle che mi ero portata da casa. Ho riconosciuto la dignità e il rispetto. Ho conosciuto gente meravigliosa che crede nella collaborazione e nell’aiuto reciproco. Nella pace e nell’uguaglianza. Sono diventata più ricca.

Poi, oggi.     Quella notizia terribile che rimbalza sul web:

https://www.msn.com/it-it/notizie/mondo/bambini-rubati-in-ucraina-il-decreto-di-putin-che-autorizza-l-adozione/ar-AAXUjlb?ocid=msedgdhp&pc=U531&cvid=cc3f92e670e240168af7e1fb13b33b05.

“Il 30 maggio è stato emesso dal Cremlino un “ukaze”, editto per fare bottino di guerra anche dell’infanzia della nazione aggredita. L’obiettivo è russificare a forza gli orfani e i minori strappati ai loro genitori in Ucraina, obbligarli a un giuramento di adesione e fedeltà al regime che ha distrutto le loro famiglie, dar loro nuove madri e padri schierati con l’esercito che sta oggi devastando le loro terre. La sostanza del documento è invece quanto di più vicino alle guerre di conquista degli anni ‘30 del Novecento si possa pensare: l’umanità soggiogata — quella nei primi anni di vita, ancora plasmabile psicologicamente — diventa un tesoro da assicurare alla Russia. Non importa che siano già profughi in Russia. Sono soggetti al provvedimento e dunque russificabili con effetto immediato i bambini residenti nelle autoproclamate repubbliche putiniane di Donetsk e Lugansk, ma anche — elemento nuovo — quelli delle regioni di Zaporizhzhia e Kherson al sud. Quanto a Mariupol, non è nominata ma si considera compresa nel territorio di Donetsk. È straordinario come la russificazione possa avvenire, in base all’ukaze di Putin, prescindendo dalla volontà o dall’orientamento di coloro che ne sono oggetto. «Hanno il diritto di presentare domanda» di cittadinanza per i bambini — si legge — anche «i capi delle organizzazioni di accoglienza per orfani o minori non accompagnati» o i «capi di istituzioni educative», oltre a «tutori» e «guardiani» dei piccoli. In altri termini entità ormai sotto il controllo di Mosca nelle città occupate — scuole, orfanatrofi, centri medici o centro sociali — possono decidere sulla futura nazionalità dei loro assistiti. Il passo successivo potrà essere poi l’adozione da parte di una famiglia in Russia stessa, come previsto dal «Commissariato per la protezione dei bambini» del Cremlino. Un passaggio nei formulari per la domanda di cittadinanza, allegati all’ukaze, rivela del resto i fini di Putin. Il richiedente deve firmare una dichiarazione: «Mi impegno a essere fedele alla Russia, a compiere scrupolosamente il mio dovere civico e a sostenere i miei obblighi in accordo con la Costituzione e le leggi della Federazione russa». In altri termini, nei piccoli ucraini da russificare a forza il Cremlino vede già dei futuri soldati. Ed è un aspetto che rivela in realtà quanto dura la guerra sia stata fin qui anche per la Russia: chi conosce il sistema putiniano dall’interno sottolinea come il dittatore cerchi così una compensazione per le decine di migliaia di persone che lui stesso ha mandato a morire in Ucraina. I più giovani diventano bottino di guerra proprio per essere mandati a uccidere o farsi uccidere in guerre immaginate da pochi anziani chiusi da decenni nelle mura del Cremlino.”

“E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.”     
Alle fronde dei salici, Salvatore Quasimodo, 1946.

Paola Miglioranzi, pediatra di famiglia, collabora con Laboratorio Uno sguardo al cielo