Oggi la guerra sul fronte russo-ucraino e la pandemia stanno acutizzando i disagi degli adolescenti. Diversi osservatori pubblici e privati come Unicef, Dipartimento per le politiche delle famiglie, Istituto Innocenti, Minotauro concordano con tale affermazione. Le modalità con cui gli adolescenti esprimono il loro malessere attualmente, sono spesso agiti in cui espongono la propria fragilità attaccando il sé. Come? Tagliandosi, affamandosi, ritirandosi dinegando ogni contatto sociale, facendo sexting esponendosi a molteplici rischi e attraverso tentativi di suicidio. Questi attacchi al sé erano già presenti e questi due eventi li hanno acutizzati.

Il rischio di negare tutto questo ha un peso importante; significa rimuovere la sofferenza e il dolore che gli adolescenti ci portavano e continuano a portarci. Significa non accogliere le emozioni da cui il disagio nasce; significa non svolgere quel ruolo importante di adulti significativi nelle famiglie e nelle scuole, significa spostare le cause, dare la colpa ad eventi esterni non vedendo che molti di quei problemi erano già presagiti. Servono adulti coraggiosi e uniti; servono le buone comunità e la buona politica; adulti che afferrino la “challenge delle difficoltà della vita vera e virtuale”, che non deleghino a un controllo superficiale e/o tecnologico il benessere dei ragazzi, adulti a cui andare anche contro ma coerenti e responsabili; non servono adulti che vengono percepiti come troppo fragili dai ragazzi. Servono adulti che dosano tenerezza, compassione e perdono per sé e per i figli perché accettano le proprie e le altrui fragilità, che sappiano motivare i no e i limiti senza sentirsi schiacciati dalle colpe, adulti accoglienti per poter ascoltare attivamente i ragazzi/e, che non si accontentano e non colludano col mero controllo virtuale, adulti che rinforzano le proprie risorse e le condividono. I regali che vanno più di moda a 9 anni per la comunione sembrano essere il cellulare oppure lo smartwatch; regali che spesso servono per poter avere sotto controllo la posizione del figlio/a e poterlo/a chiamare. Questa è davvero responsabilità educativa? La tecnologia può essere utilizzata come surplus alla relazione ma deve essere accompagnata al dialogo. Una mia amica mi raccontava che suo figlio di 17 anni è rientrato a casa e lei lo ha aggredito ancora per le scale poiché aveva preso un 4 in matematica. Lui però non lo sapeva, lei lo aveva letto sul registro elettronico prima di lui (che non aveva matematica quella mattina) e la guardava stupito perché non capiva perché lei fosse così arrabbiata. Ma che cosa significava quel 4? Di cosa parlava? Era una verifica particolarmente difficile? il ragazzo non si era preparato e se lo aspettava, aveva sperato di copiare e non era riuscito oppure aveva studiato tanto e non aveva proprio capito oppure pensava di avere capito e invece…? E cosa significa pubblicare dei voti senza averli fatti vedere e comprendere ad una classe da parte dell’insegnante? Ritengo che, ogni voto o regalo possono avere mille significati e anche l’assunzione di responsabilità e l’ascolto che ne derivano. Perché ho la posizione di mio figlio/a, significa che lui/lei è al sicuro? Perché ha con sé il cellulare sono tranquilla? Perché ha il cellulare mi risponderà e dialogherà con me?  Rispetto alle generazioni precedenti i genitori di oggi ascoltano di più i figli. Ma quale ascolto si sta attivando? Quali responsabilità derivano da esso? Smarcarsi e non colludere con responsabilità di facciata per un genitore e per la scuola è veramente arduo. Un esempio: da qualche anno arrivano dalle scuole medie richieste di firmare il consenso in cui un genitore si assume la responsabilità che il figlio/a torni a casa da solo/a e poi, alle superiori occorre andarlo a prendere se deve uscire un’ora prima. È responsabilità questa? È delega? È mera copertura assicurativa? Oggi credo occorra svolgere le 4 funzioni di base di Melzer e Harris che sempre più sono importanti da ricordare: contenere le sofferenze depressive ed ansiogene a cui famiglie e scuole sono costantemente esposte senza delegare e senza scaricarle sui ragazzi; pensare e meta-riflettere ed insegnare ai ragazzi a farlo, generare amore e compassione per sé e per l’altro e infondere speranza.  Quest’ultima è una funzione potentissima: noi non possiamo cambiare la pandemia o la guerra, le perdite o le malattie. Però possiamo infondere la speranza, cercare e trovare un senso alla vita e ai suoi eventi, a quelle parte di noi che magari non ci piacciono legate alle paure, alle angosce o alla morte. Non significa creare illusioni ma aiutare a creare un senso autentico al vivere. Significa coraggiosamente chiedersi cosa genera benessere in senso olistico per un adolescente nella ripresa della vita sociale? E allora sì che l’adolescente che deve sbocciare tra i pari e affrontare i suoi compiti evolutivi potrebbe sentirsi più sicuro nel farlo; potrebbe percepire un salvagente che lo fa sentire più forte per affrontare i cambiamenti ed esplorare la ripresa nel mare della socialità.  Avendo alle spalle qualcuno come scuole e famiglie che lavorano insieme, che credono in lui, che non lo abbandonano o non si lasciano abbandonare (il drop out scolastico è un rischio da tenere sempre in considerazione), che non permettono che un fallimento diventi l’etichetta dell’intera persona ma che divenga occasione per fare emergere risorse e potenzialità, una comunità che si apra nei suoi spazi e nei suoi tempi (la scuola dovrebbe davvero continuare ad investire in tal senso e trasformarsi in luogo di costante aggregazione). Forse questa è la vera challenge che sarebbe bello divenisse virale…

Licia Barrocu, psicologa, psicoterapeuta, docente del Master