Gianni Rodari racconta di un topolino dei fumetti che, stanco di abitare tra le pagine di un giornale e desideroso di cambiare il sapore della carta con quello del formaggio, spiccò un bel salto e si trovò nel mondo dei topi di carne e d’ossa.

Squash! – esclamò subito, sentendo odor di gatto.

Come ha detto? -bisbigliarono gli altri topi, messi in soggezione da quella strana parola.

Sploom, bang, gulp! – disse il topolino, che parlava solo la lingua dei fumetti.

Dev’essere turco, – osservò un vecchio topo di bastimento, che prima di andare in pensione era stato in servizio nel Mediterraneo. E si provò a rivolgergli la parola in turco. Il topolino lo guardò con meraviglia e disse:

Hip, fiiisb, bronk.

Non è turco, – concluse il topo navigatore.

Allora cos’è?

Vattelapesca.

Cosi lo chiamarono Vattelapesca e lo tennero un po’ come lo scemo del villaggio.

Chi cresce è come quel topolino: Korczak rispetta la crescita vedendo in essa l’evoluzione. E per rispettarne la fatica, vuole fornire occasioni. In giorni in cui, nel ghetto, nessuno sapeva quanto avrebbe ancora resistito e vissuto, Korczak manteneva l’organizzazione di un piccolo giornale dei bambini e delle bambine; e di un incontro settimanale aperto a tutti, e chiamato “la borsa delle idee”, in cui un tema veniva svolto in una lista di soggetti per essere illustrato e approfondito. Questo avveniva nel ghetto di Varsavia, in pieno terrore nazista. E l’ultimo giornale stampato, prima della catastrofe, aveva l’editoriale dello stesso Korczak dedicato all’importanza di riordinare la tavola quando è finito il pasto, e di non lasciare briciole e disordine. E’ l’ultima “borsa delle idee” aveva temi come l’importanza delle donne in Europa, o il ruolo di Napoleone nella storia europea.

Chi guarda avanti è accompagnato dal proprio passato e impara a conviverci. Sembra impossibile immaginare una vita senza dei momenti di sofferenza. Sono state fatte ampie riflessioni su una crescita che venga esageratamente favorita e non incontri mai punti di resistenza, piccoli traumi, delusioni. Una crescita di questo tipo oltre ad essere molto, molto difficile per chi se ne assume la responsabilità non ha come risultato il benessere e la gioia. Piuttosto l’impreparazione alla inevitabile sofferenza. Perché la sofferenza è inevitabile e una gran parte degli studi ha messo in relazione la capacità di sopportare e resistere alla sofferenza attraverso il linguaggio.

Korczak sapeva che i bambini vedevano, come lui stesso vedeva, i morti nelle strade del Ghetto. Chiese e ottenne dall’autorità del Ghetto che alcuni negozi dismessi fossero resi disponibili come luoghi in cui poter morire con dignità. Ma voleva che i bambini di cui aveva la responsabilità vivessero una fraternità da costruire operosamente e che comprendesse anche la morte, andando oltre. E non solo quella degli altri.

La fraternità è un progetto culturale che va oltre l’esperienza che stiamo vivendo. Anche per chi, nel Ghetto di Varsavia, si sente già condannato a morire. E noi, che non viviamo quell’esperienza, ci sentiamo minacciati da un presente che contiene le difficoltà che oggi incontriamo, nelle nostre culture: le migrazioni, la globalizzazione, la trasformazione del lavoro, e dalla sua perdita di centralità nelle dinamiche di solidarietà e di fraternità. Tutto questo era chiaro in Korczak. Che, nel Ghetto di Varsavia, chiese aiuto a Tagore[1]. I bambini interpretano il dramma “La Posta” di Tagore. È la storia di un bambino che è malato e muore sognando i campi sui quali corre. Secondo Korczak, i bambini del Ghetto devono imparare la morte dignitosa e serena. Devono, diremmo oggi, essere resilienti[2].

E Mario Lodi? I bambini di cui aveva la responsabilità potevano essere considerati lontani dalla morte. Vivevano in tempo di pace, in una località laboriosa e impegnata nella costruzione di un futuro migliore. Ma Mario Lodi, come Korczak, non annunciava verità. Le ricavava, e le leggeva insieme ai bambini, ricavandole dalla realtà. Nessuna lezione preparata sulla morte. Ma una disponibilità ad accogliere i suggerimenti che arrivano dalla realtà che incontriamo. E così … Così capitò che – siamo in seconda elementare – in autunno venne realizzato uno studio su quella stagione. E per questo, il gruppo portò in classe un abbondante materiale composto da fogli, rametti di sempreverdi, cachi, castagne, pannocchie, sementi … e alcune bacche di pianta ornamentale con delle “palline spinose”, un po’ simili alle castagne, e che suscitarono una certa curiosità. Quelle palline rimangono sul davanzale. Finché un bambino, Vittorio, si accorge che una pallina è stata rotta. Da chi? Nessuno può averlo fatto. E se si fosse rotta da sola? Eugenia osserva che sono usciti, dalla pallina aperta, dei chiccolini, che sono dei semini. È la pianta che, quando la terra è umida, e quindi accogliente, fa scoppiare i frutti – le palline spinose – per far germogliare i semini. Tutti insieme, i bambini e il maestro hanno sciolto un piccolo mistero, e scoperto la realtà vivente. Severino propone di farne una commedia. Idee, proposte, distribuzione di compiti, realizzazioni … Nei giorni che seguono, la commedia è scritta, stampata, illustrata, imparata, provata e riprovata. Eugenia dice che la pianta è come la nostra mamma, e noi siamo i semini-bambini. Il gruppo scopre la trasmissione della vita. E scopre che c’è la morte: “dopo si muore”. Eugenia vorrebbe che la sua mamma non morisse mai. Severino è implacabile: anche la sua mamma morirà. Eugenia si ribella: “Quella minestra lì mi fa diventare grande e io non la voglio, perché la mia mamma diventa vecchia”.

“ ‘Non è la pappa, cara Eugenia … ’. E di questo parlando, e d’altro, quel giorno, Eugenia ed io diventammo ancora più amici, come fratelli, e lungo la strada che talora si fa assieme ritornando la sera da scuola, fra la natura che riposa preparandosi alla rinascita della nuova stagione, pianamente, senza dare eccessiva importanza, parlammo e tuttora parliamo delle tante cose brutte e belle di questo nostro mondo che scopriamo a poco a poco e della cui conoscenza la chiave preziosa ci offrì una bacca spinosa”.

Andrea Canevaro


1 Rabindranath Tagore, Calcutta, 7 maggio 1861Santiniketan, 7 agosto 1941, poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese.

[2] Il termine resilienza deriva dal latino resilire, iterativo di salire, che rimanda a “saltare, rimbalzare”. Esige spazio. La caratteristica di un corpo di assorbire l’energia di un urto – stress – contraendosi e riassumendo la forma originaria quando abbia spazio. per gli esseri umani, la resilienza può svilupparsi con la possibilità di avere spazi mentali. Come Korczak cercava, grazie anche a Tagore, di realizzare per sé e per i bambini del Ghetto di Varsavia.