Era scomparsa. Nina era scomparsa. L’avevano cercata ovunque, ma era sparita. Avevano percorso a ritroso tutta la strada da scuola a casa, avevano setacciato ogni bar, ogni negozio, ogni vicolo. Niente. Un brivido corse lungo la schiena di Francesca. Non era facile essere la zia di Nina. Non era facile essere la zia di una ragazzina di quindici anni messa in protezione quando ne aveva poco più di otto. Improvvisamente le tornò alla mente quando correva per i bar ed i parchi a cercare sua sorella, la madre di Nina. La cercava, sperando di trovarla sobria, non in compagnia di quei brutti ceffi che le vendevano la droga, quella droga della quale non poteva fare a meno, nemmeno quando era incinta di Nina. Quante volte l’aveva cercata. Quante volte aveva avuto paura di non trovarla. Di non ritrovarla più. Finché, l’ultima volta che l’aveva trovata, aveva capito che non avrebbe più avuto bisogno di cercarla. Era morta. Di overdose, di freddo, di dolore, di una solitudine che niente e nessuno era riuscito a colmare. Improvvisamente venne scossa da un conato di vomito, causato dalla paura di ritrovare Nina, riversa nella stessa pozza di miseria in cui aveva trovato sua sorella. Nina le ricordava spesso la sorella scomparsa. La stessa paura di vivere, lo stesso bisogno di essere amata per quello che era, la stessa consapevolezza di avere una strada davanti a sé lunga e tortuosa. Glielo aveva detto di non frequentare Giovanni, di non innamorarsi di lui. Glielo aveva detto di non andare a dormire a casa sua, di non vivere quella storia bruciando tutte le tappe. Ma, allo stesso tempo, non era riuscita ad impedirglielo. E la madre di Giovanni non l’aveva di certo aiutata. Le aveva preparato una camera, le aveva regalato i suoi trucchi ed i suoi vestiti, le aveva dato cose che lei non si poteva certo permettere. Aveva cercato di colmare con qualche dono i vuoti che Nina portava dentro da una vita, che erano nati insieme a lei. Poi Giovannil’aveva lasciata e Nina era ripiombata in una spirale di solitudine e di abbandono. Aveva dovuto fare le valigie e tornare a casa della zia, che aveva accolto di nuovo quel corpo smagrito e quell’anima stropicciata dal dolore. Aveva raccolto le sue lacrime ma non era riuscita a trattenersi dal dire “te l’avevo detto!”. Forse era stata proprio quella frase detta impulsivamente a farla scappare. Glielo aveva detto tante volte Paolo, l’educatore del servizio sociale che seguiva Nina a domicilio qualche pomeriggio dopo la scuola: di non essere così precipitosa, di pesare le parole, di cercare di non sovrapporre continuamente l’immagine di sua sorella a quella di Nina. Ma lei non ci riusciva. O forse, era solo stanca. Stanca di una vita che nemmeno lei aveva scelto. Stanca di dover essere all’altezza delle aspettative di tutti solo perché, di fronte alle violenze domestiche che anche lei aveva subito da bambina, aveva scelto di non drogarsi, di provare a rifarsi una vita. Anche se ci era riuscita solo in parte. Il suo matrimonio era fallito e non aveva avuto figli. Tutto ciò che aveva, oltre al suo lavoro, era Nina. Paolo la raggiunse sotto la pensilina dell’autobus. Ormai era sera. Entrambi erano consapevoli che erano poche le speranze di ritrovarla senza avere una minima traccia. Senza nessuno che l’avesse vista da qualche parte. Paolo aveva avvisato le forze dell’ordine. L’unica speranza era che qualche pattuglia la trovasse. Sperando che non le fosse successo niente. Percorsero insieme a piedi l’ultimo tratto di strada verso le rispettive macchine. Paolo era una presenza rassicurante, forse la prima nella loro vita da quando si erano ritrovate da sole. Sapeva stare vicino a Nina, sapeva comprenderla, anche spiegarle le cose più difficili da spiegare. Sapeva anche ascoltare le cose che lei rifiutava di sentire. Povera Nina. Chissà quali ricordi e quale senso di fallimento le aveva lasciato la storia con Giovanni. Paolo non si stancava mai di ascoltarla. A volte aveva pensato che fosse po’ quel padre che Nina aveva conosciuto per poco tempo e che aveva idealizzato. Anche il padre di Nina era morto. In un incidente stradale, pieno di alcool e di eroina nelle vene. Questo, però, a Nina non l’avevano mai detto. Così Nina si era costruita l’idea che se suo padre fosse stato ancora vivo avrebbe potuto vivere con lui e tutti i suoi problemi si sarebbero risolti. Povera Nina. Francesca cominciò a piangere. Di rabbia, di disperazione, di impotenza. Paolo le mise una mano sulla spalla. Poi, il suo telefono di servizio squillò. “Vienimi a prendere”. All’altro capo del telefono una voce stanca, triste. Delusa dall’ennesimo tentativo di indipendenza emotiva andato in frantumi. “Vengo a prenderti Nina. Aspettami”. “Grazie pap…. Volevo dire…Paolo”. Insieme si diressero verso la macchina in silenzio. Sarebbero andati a riprenderla insieme. Non aveva chiamato lei. Ma questo non era importante. L’importante era che volesse tornare a casa.