Clarice soffia felice le candeline sopra la sua torta al cioccolato. Oggi compie dieci anni. È felice, come ogni bambina della sua età dovrebbe essere. Guardo mia figlia mentre sorride e si affaccia con fiducia ad un’adolescenza sulla quale io veglierò perché mai le vanga impedito di vedersi crescere, di osservare la sua natura che sboccia, perché possa scegliere, anche soffrire se sarà necessario, ma da donna libera. Quale io non sono stata. La guardo. Una parte del mio cuore è felice per il dono che Dio mi ha fatto di avere una figlia e di poterla guardare mentre diventa sempre più grande, sempre più bella, sempre più simile a me e a quella che avrei desiderato essere. E una parte, invece, affonda nel passato, nel giorno in cui io ho compiuto dieci anni. La mattina del mio decimo compleanno mia madre mi portò dal medico del paese. Allora vivevamo in Camerun e io frequentavo la scuola. Non ce la passavamo male, mio padre non ci faceva mancare niente. Ma non c’era mai, il lavoro lo impegnava moltissimo, e per questo aveva lasciato a mia madre la gestione della casa e dei figli. Io ero l’unica femmina. Mia madre era molto rigida, molto osservante sia nelle pratiche religiose che nella cura e nell’educazione dei figli. Non ricordo un bacio o un abbraccio di mia madre. Non gliene faccio una colpa. Nemmeno lei ne aveva ricevuti. Il medico le disse che stavo bene, che stavo crescendo sana e che il mio fisico era pronto per lo sviluppo. Mia madre, abbassando il tono della voce, chiese quando avrei avuto la prima mestruazione. “Difficile dirlo”, rispose il medico. Ma, entro un anno, secondo lui, avrebbe cominciato ad accentuarsi il seno e, quindi, sarebbe arrivato anche il ciclo. Io li ascoltai conversare, ma non capii alcuna delle parole che dicevano. Pensavo solo che era il giorno del mio compleanno e speravo che qualcuno mi avrebbe fatto un regalo. Mio padre di solito metteva sempre da parte qualche soldo per un piccolo regalo di compleanno e qualche dolce. Desideravo un libro di favole illustrato che avevo visto in libreria. Ma era un po’ costoso, forse non ce lo potevamo permettere. Mia madre mi riportò a casa, che era vuota. Nessuna festa. Nessun regalo. Nessuna torta. Però c’era mio padre. Sentii che parlava con mia madre in cucina. Non compresi quello che si dicevano, ma intuii che aveva a che fare con quello che il dottore aveva detto a mia madre. Mio padre sembrava triste, angosciato. Lo vidi annuire. Sentii solo che le diceva: “Fatti aiutare da Nanà. Non voglio essere in casa mentre lo fate”. Nanà era una specie di infermiera. Non lavorava in ospedale, però andava spesso a casa della gente quando qualcuno stava male e non si volevano scomodare i medici. A me faceva paura. Era corpulenta, a volte pensavo che avrebbe potuto sollevare per aria persino mio padre, che era grande e grosso. Nanà venne nel pomeriggio. Mi disse solo che era venuta ad aiutare mia madre a fare una cosa necessaria. Che avrei sentito un po’ di dolore ma che era per il mio bene. E così, senza tanti complimenti mi afferrò da dietro per tenermi ferme le braccia, mentre mia madre mi scopriva il petto. Prese un ferro rovente e cominciò letteralmente a stirarmi i seni. Non si può raccontare il dolore. La carne brucia e tu non puoi fare niente, nemmeno gridare, perché altrimenti il disonore cade sulla tua famiglia. Un disonore che si cerca di allontanare proprio con questa tortura, perché se si permette che il seno cresca, e se hai la sfortuna di essere bella, gli uomini ti guarderanno. E se ti guarderanno ti faranno la corte. E se ti faranno la corte finirai per cedere. E se cedi, ti ritroverai in intimità con uomo che non è tuo marito. Potrai rimanere incinta o, anche se non sarà così, sarai comunque disonorata e nessun uomo ti sposerà più. Perciò l’unica soluzione è che gli uomini non ti guardino. Non si può raccontare il dolore. Speri solo di svenire, cosa che per fortuna spesso succede, in modo da non sentire più quel male insopportabile, e di svegliarti quanto tutto è finito. Nanà venne ancora tante volte, fino a che il seno davvero non crebbe più. Le cicatrici avevo smesso di contarle. Pensai che nessun uomo mi avrebbe mai voluta, mi avrebbe mai guardata, nemmeno quando avessi avuto l’età per sposarmi. Mio padre se ne andava ogni volta. Non so dire oggi se sia stato un gesto d’amore o di vigliaccheria. Allora pensavo fosse perché mi voleva talmente bene che non accettava di vedermi soffrire. L’ho pensato finché non ho conosciuto mio marito. Sono diventata un’infermiera. Ho studiato perché era quello che la mia famiglia voleva. E ho studiato per diventare infermiera perché non volevo che altre donne patissero quello che io avevo dovuto patire. Mio marito è medico. Ci siamo conosciuti in ospedale, mentre curavamo le ferite di una ragazzina alla quale avevano impartito la stessa tortura che avevo subito io molti anni prima. A lei è andata peggio che a me. Le ulcere erano così profonde e l’infezione così estesa che abbiamo dovuto asportarle entrambi i seni. A lui, che rimase così scandalizzato da quello scempio, ho potuto raccontare il mio dolore. Ci siamo sposati e siamo andati a vivere in Inghilterra. Oggi siamo una famiglia come tante, in un quartiere cosmopolita che non si fa troppe domande sul passato della gente. Ed io ho potuto sperimentare che esistono uomini che fuggono e uomini che salvano. Mio marito mi ha salvata. Mi ha salvata da mia madre, ma anche da mio padre. Ed oggi ha salvato anche nostra figlia. Se io fossi stata in Camerun, ancorata alla nostra comunità, la stessa sorte sarebbe toccata anche a lei. Il giorno che è nata ho pianto, perché i danni permanenti che ho comunque riportato al seno non mi consentivano di allattarla. E, in ogni caso, non potevo sopportare che mia figlia fosse sempre a contatto con quelle cicatrici mostruose. Mio marito mi è rimasto vicino. Allora ho capito che non è una cultura ad essere sbagliata, ma la freddezza umana che fa restare rimanere inerti di fronte al dolore ed alla sofferenza. E l’ignoranza, l’incapacità di invertire una spirale di ingiustizia, solo perché nemmeno a noi è stato consentito di scegliere. Allora guardo Clarice. Io ho sofferto. Ma la mia sofferenza ha sancito la sua libertà.
(foto di Alessandro Maria Fucili)