Nel corso dell’ultimo intervento ci siamo lasciati con una domanda: come poter pensare un’alternativa all’educazione ambientale esistente che guardi la natura da una prospettiva diversa da quella centrata sull’essere umano e che costruisca narrazioni nuove, altre da quelle culturalmente costituite? Come fondare una pedagogia e una didattica che facciano proprie istanze insieme ecologiche ed etiche? Probabilmente comincia tutto da dove decidiamo di collocarci come specie. Possiamo infatti de-centrare l’essere umano, abbandonare il privilegio di un punto di vista unico e incontrastato sulla natura, abbandonare la logica dello sviluppo a favore di quella della co-evoluzione, lasciare la presa sul desiderio di gestire e amministrare le risorse per immergerci nella multiformità delle interconnessioni che costituiscono la trama fitta delle relazioni reali che ci attraversano e ci legano all’ambiente naturale, al di là della nostra interpretazione parziale delle medesime. A fornirci fondamenti teorici per compiere questo importante e faticoso spostamento di asse sono in particolare due filosofie nate nel secolo scorso: il Postumanesimo e l’Ecofemminismo. A nostro parere, infatti, tra le prospettive filosofiche che sono state elaborate al fine di promuovere un oltrepassamento della prospettiva human centered, il Postumanesimo e l’Ecofemminismo meritano una particolare attenzione, tanto per la radicalità della loro critica all’antropocentrismo e all’androcentrismo del pensiero occidentale quanto per l’originalità del loro impianto concettuale, dotato di una forza eversiva che – qualora ascoltata, compresa, accettata e diffusa – avrebbe realmente la potenzialità di modificare l’assetto etico, sociale, culturale e politico delle società occidentali, disegnando nuovi orizzonti di idee e nuove descrizioni del mondo, dando forma a modi nuovi di concepire la condizione umana e il significato che diamo all’esistenza, al nostro stare nel mondo e al nostro rapporto con la natura e con gli altri animali. Nel prossimo intervento ci occuperemo dell’Ecofemminismo, in questo invece prendiamo in considerazione una particolare declinazione filosofica del Postumanesimo: quella elaborata da Rosi Braidotti nel saggio Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (1). La tesi di fondo della teoria postumana della filosofa italiana è che il concetto di “umano” è stato all’interno della tradizione umanista e illuminista del pensiero occidentale un modello sistematizzato di riconoscibilità – di Identità – grazie al quale tutti gli “altri” sono stati valutati, normati e assegnati a una definita posizione sociale. Contemporaneamente all’Identità di soggetti umani, in altre parole, è nata la base stessa dell’esclusione e della discriminazione dell’altro da cui è circonfusa. Lo standard umano ha rappresentato la normalità, la normazione e la normatività, trasponendo un particolare modo di essere umano in un modello generalizzato, categoricamente e qualitativamente distinto – e dunque superiore – dagli Altri: sessualizzati (le donne), razializzati (i nativi, i neri, gli asiatici, etc.) e naturalizzati (gli animali, l’ambiente, la terra). Tuttavia, secondo Rosi Braidotti, oggi tale concetto e modello di Uomo non è più accettabile, o meglio: è una falsità che continua a produrre solamente ignoranza, cattiva coscienza del soggetto dominante e disumanizzazione epistemica e sociale. I presupposti per un tale superamento sono già presenti e disseminati nell’universo che ci circonda, e ci parlano di un presente proteso verso direzioni “più che umane”. Alla fine del XIX secolo Nietzsche ha dichiarato la morte di Dio e meno di un secolo più tardi Foucault vi ha associato la morte dell’Uomo, destinato a scomparire come un volto di sabbia in riva al mare, cancellato dalla sua stessa epistemologia e da quel “diverso” che ha proiettato al di fuori di sé – queste sono due significative pietre miliari del declino dei presupposti illuministici del progresso dell’umanità e della perfettibilità dell’Uomo per mezzo dell’uso autoregolatorio e teleologicamente orientato della ragione e della razionalità scientifica laica. Allo stesso tempo, gli odierni progressi scientifici (pensiamo all’ingegneria genetica, alle neuroscienze, alle biotecnologie, alle Intelligenze Artificiali e alla robotica) e gli interessi dell’economia globale (i quali continuano a esercitare una pressione al controllo e alla mercificazione di tutte le specie – animali, piante, semi, batteri, ed esseri umani con essi) cancellano nella pratica storiche distinzioni essenzialiste in nome della medesima materia di cui siamo fatti, una materia che si compone e si scompone in elementi umani e non-umani ed entra a far parte integrante delle nostre culture e società. Inoltre, è giunta l’era dei successi dei più grandi movimenti emancipatori della post-modernità, al contempo il sintomo della crisi del soggetto e l’espressione di alternative positive e propositive: i movimenti femministi, i movimenti LGBT, i movimenti antirazzisti e anticoloniali, i movimenti antinucleari e ambientalisti. In seguito e in virtù di tutte queste voci annunciatrici del Postumanesimo, ci troviamo oggi a vivere una situazione che apporta un serio decentramento dell’ideale astratto di Uomo, bianco, ricco, bello e normodotato, misura prima di tutte le cose, centro e motore del progresso storico. Ne deriva, dunque, che se il soggetto umanista è nato, si è definito e ha confermato la sua posizione suprema per mezzo di un’equivalenza con la coscienza, la razionalità universale, il comportamento etico autodisciplinante, e per mezzo di una dialettica con l’alterità, con la differenza, sua controparte negativa e speculare; il soggetto postumanista si contraddistingue per la necessità di impegnarsi nell’elaborazione di modi alternativi per la concettualizzazione della propria soggettività, aprendosi all’alterità, ricollocando la diversità e le appartenenze multiple nella posizione centrale di componenti strutturali del soggetto. La fine dell’umanesimo classico non si presenta quindi come una crisi, bensì come un’apertura che comporta conseguenze positive. L’obiettivo, infatti, è quello di proporre nuovi e alternativi modi di guardare all’umano, da un punto di vista più inclusivo, seguendo e sostenendo alcuni principi fondamentali:

  1. l’apertura all’altro da sé, il profondo sentimento di interconnessione tra il sé e gli altri, inclusi gli altri non-umani, la necessità di forme di rispetto benevolo nei confronti delle differenze;
  2. il rifiuto della centralità dell’uomo, della logica del dominio, dell’esclusione, della discriminazione e della sottomissione dell’alterità, definita sempre come la controparte negativa, diversa, inferiore;
  3. l’imparare a pensare all’essere umano (chi e che cosa è) in modo diverso, critico e creativo, al fine di incentivare la ricerca di schemi di pensiero, di sapere e di autorappresentazione alternativi a quelli dominanti;
  4. il disconnettere l’agente umano dalla sua posizione universalistica, richiamandolo a rendere conto, e a spiegare, le azioni concrete che sta intraprendendo;
  5. l’avversare il soggetto unitario dell’umanesimo e sostituirlo con un soggetto più complesso e relazionale.

Ma cosa ci si può aspettare che succeda se effettivamente riusciamo nell’intento di liberarci del peso secolare dell’anthropos, del centro umanista e della posizione dominante del soggetto? Possono finalmente trovare spazio per riemergere gli Altri, con tutte le potenzialità che portano con sé di costruire alternative positive e propositive rispetto al soggetto moderno umanista. Rimuovendo infatti l’ostacolo rappresentato dall’individualismo autocentrato, possiamo decidere di definirci – e di riconoscerci – come soggetti relazionali, evoluti insieme alle altre specie in un ambiente condiviso, in forte continuità e interdipendenza con ciascun altro ente, caratterizzati da appartenenze multiple, determinati nella e dalla molteplicità e dai flussi di relazioni con i molteplici Altri. Soggetti anche internamente differenziati, eppure ancora culturalmente e socialmente radicati, responsabili e in grado di vivere e agire proprio a pratire dalle differenze. Può venire in primo piano, in altre parole, il continuum natura-cultura nella struttura incarnata della soggettività estesa. Si tratta di una sorta di «“esodo antropologico”», di estraniazione e riposizionamento radicali, «una fuga dalla concezione dominante dell’uomo come signore incontrastato del creato – una colossale ibridazione della specie. Una volta sfidata la centralità dell’anthropos, un certo numero di confini tra l’uomo e gli altri da sé cominciano a cadere, con un effetto a cascata che apre prospettive inaspettate» (2). In qualità di entità incarnate, infatti, siamo tutti parte della natura, per cui è necessario spiazzare l’antropocentrismo e riconoscere la vitalità dei nostri legami con animali, insetti e piante, sulla base della nostra condivisione del pianeta, dei territori e dell’ambiente, anche al di là della prospettiva catastrofica dei cambiamenti climatici. Essere soggetti tra infiniti altri ci toglie dalla logica della vulnerabilità che isola e ci proietta nella dimensione del comune e condiviso poter forire secondo le proprie potenzialità. Questa interconnessione vitale può dare luogo a un cambiamento qualitativo della relazione, allontanandola dallo specismo e avvicinandola alla rivalutazione etica della prossimità, dell’incontro, dell’interconnessione e dell’interdipendenza. Essere postumani, allora, non significa essere indifferenti agli umani o essere disumanizzati; ciò implica piuttosto un nuovo modo di costruire con diversi materiali – presi da ogni parte dell’ambiente circostante – un’etica adeguata a perseguire il benessere di una comunità allargata a tutti gli enti, in grado di includere le interconnessioni territoriali e ambientali di ciascuno. Come scrive Rosi Braidotti: il divenire postumano è di conseguenza un processo di ridefinizione del senso di connessione verso il mondo condiviso e l’ambiente […]. Esso esprime multiple ecologie dell’appartenenza, mentre innesca la trasformazione delle coordinate sensoriali e percettive, al fine di riconoscere la natura collettiva e l’apertura verso l’esterno di ciò che ancora chiamiamo soggetto. Tale soggetto è infatti un assemblaggio mobile in uno spazio di vita condiviso che non controlla né possiede, ma che semplicemente occupa, attraversa, sempre in comunità, in gruppo, in rete. (3). La teoria postumana di Rosi Braidotti, in conclusione, con la sua visione del soggetto come entità trasversale, pienamente immersa in e immanente a una rete di relazioni umane e non, esprime una forma di responsabilità radicata su di un forte senso della collettività e della relazionalità, che si traduce in una rinnovata richiesta di comunità e di appartenenza da parte di tutte le singolarità soggettive.

  • Rosi Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, Roma, DeriveApprodi, 2014.
  • Ivi, p. 73-74.
  • Ivi, p. 202.