Tra la fine della seconda guerra mondiale e fino ai primi cinquanta e’ avvenuto dall’ Istria, da Fiume e dalla Dalmazia l’ esodo di circa 350 mila giulano- dalmati.
Chi educa opera scelte e scegliendo si espone, si assume responsabilità. Suggerisce con quali occhi esplorare il mondo. E il mondo si rivela, a chi lo guarda, nella sua complessità fatta anche di inquietanti contraddizioni, di feroci violenze e di gravi ingiustizie. E’ duro vederle e toccarle, ma le domande, tutte le domande che ne nascono, sono l’antidoto all’indifferenza, che offende chi le violenze e le ingiustizie, in varie forme, le ha subite e le subisce. In quest’ottica, un po’ di anni fa, insieme ad alcuni colleghi, ho accompagnato un gruppo di studenti, perlopiù quattordicenni, in un viaggio della memoria alla foiba di Basovizza, non lontano da Trieste, sull’altopiano del Carso. Nel 1992, l’allora presidente della repubblica italiana, Oscar Luigi Scalfaro, dichiarò la foiba di Basovizza, monumento nazionale per il suo elevato significato storico. Infatti, il sito costituisce un importante simbolo delle stragi avvenute nella Venezia Giulia in particolare nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Vi si ricordano le vittime di quella terribile stagione di morte. Le foibe sono profondità naturali, tipiche dei terreni carsici, la cui imboccatura può variare da qualche decina di centimetri ad alcuni metri, e la cui profondità può superarne i cento. Fin dall’antichità sono state usate per occultare corpi ed oggetti, ma questo uso si è amplificato nella seconda metà del Novecento quando le foibe vennero adoperate come sepolture collettive di parte dei responsabili delle stragi sopracitate, dal momento che il terreno roccioso rendeva difficile lo scavo di fosse comuni. Infoibati significa dunque “gettati nelle foibe”. Il termine è entrato in uso dopo la scoperta sul fondo di questi abissi dei corpi delle vittime, che in alcuni casi erano state gettate nei pozzi ancora vive. La foiba di Basovizza ha pertanto rappresentato per la nostra piccola comunità scolastica in viaggio, “un laboratorio di studio e di memoria storica” voluto da noi come momento di riflessione e di analisi di un fenomeno tanto significativo quanto devastante dell’età contemporanea e per estensione come momento di riflessione sulle grandi tragedie del secolo scorso e non solo. Un laboratorio di analisi storica, ma anche individuale, per l’attivazione di “perché”, della ricerca di possibili risposte, di processi di immedesimazione e di riflessione sui comportamenti individuali e collettivi. E anche di vicinanza tra chi si è commosso, tra chi ha “sentito”, tra chi ha capito e ha partecipato attivamente ponendo tante domande, tra chi è rimasto in silenzio e tra chi si è distratto e che forse un giorno, osservando una foto, avrà voglia di ritornare su quei passi. Dedicato a mia bisnonna Elisa, trasferitasi in Italia agli inizi del Novecento, senza aver mai conosciuto davvero la lingua italiana e chiamata dalla famiglia acquisita “la slava”. Aveva dato alla patria del marito, mio bisnonno, 12 figli, di cui alcuni morti in guerra e altri a causa della guerra. Era silenziosa, dolce, osservatrice. Sicuramente in pochi l’hanno aiutata a non sentirsi straniera. Elisa Cappi, insegnante