A volte aspetto che il campo da calcio si svuoti, che i bambini tornino nelle loro case. Allora mi siedo qui, in questo angolo di terra e afferro il pallone con entrambe le mani. Stringevo un pallone anche quando sono arrivato in Italia, era l’unico ricordo della mia terra, l’unico oggetto che parlasse veramente di me. Mi chiedo spesso che cosa ne sarebbe stato della mia vita se non avessi amato così tanto giocare a calcio. Mi chiedo cosa ne sarebbe della vita di questi ragazzi se non provassero l’emozione di buttare la palla nella rete, di fare goal. Di fare centro nel campo, nella vita. Avevo quindici anni quando, nel mio paese in Camerun, un uomo che allena campioni mi disse che avevo la stoffa del calciatore. Buttò poche banconote sul tavolo, i miei fratelli ci avrebbero mangiato per mesi. Ma quello che si arricchì veramente fu lui, quando riuscì a vendermi ad una squadra italiana alla quale feci vincere un sacco di partite. La squadra cresceva, gli imprenditori calcistici ingrassavano e io non mandavo a casa una lira. Ma almeno giocavo a calcio. E credevo, in qualche modo, che il mio sacrificio necessario fosse servito a qualcosa. La mia famiglia continuava a morire di fame, ma lo faceva volentieri per la mia felicità. E poi continuavo ad essere convinto che sarei diventato famoso un giorno. Era solo questione di tempo. Non facevo che sognare il giorno in cui sarei salito in una di quelle macchine di lusso, della quale sarei stato il proprietario, che giravano attorno allo stadio. Ci pensavo anche in campo, ogni volta che cercavo di fare goal. Sbagliato. Mai distrarsi in campo, bisogna sempre mantenere la concentrazione, altrimenti gli altri ti fanno fuori.  E infatti mi hanno fatto fuori. Intervento a gamba tesa. Un attimo. Mi hanno fracassato le caviglie, le ginocchia. E lo hanno fatto apposta, perché lo sapevano che quando cominciavo a correre, palla al piede, non mi fermava nessuno, ero il più veloce di tutti. Lo hanno fatto apposta. L’arbitro a quella testa di legno ha dato un cartellino rosso. Capirai. Intanto lui ha saltato una sola partita, io il resto del campionato. Non ricordo nemmeno quando mi hanno portato in ospedale, credo di essere svenuto dal dolore. Sono rimasto in ospedale per un tempo interminabile, circondato da dottori contenti perché con un’adeguata riabilitazione sarei tornato a giocare in tre o quattro mesi. Ma quell’uomo non era contento. Quell’uomo che mi aveva comprato, intendo. Tre mesi erano un tempo infinito, nel frattempo il campionato era perso. Non servivo più. Inutile pagare la riabilitazione. Dopo il responso dei medici non è nemmeno più venuto a trovarmi in ospedale. Così mi sono ritrovato solo, senza cure, senza soldi, nemmeno per tornare a casa.

Avevo solo quel pallone, ancora incastrato nello scomparto inferiore della mia sacca da calcio. Non valeva nulla, anche se avessi voluto venderlo. Non valeva nulla. Come me. Quando finalmente mi hanno dimesso dall’ospedale è stato anche peggio. Non sapevo dove andare. Credevo che avrei fatto come altri miei connazionali, che hanno finito per rubare e spacciare. Non è facile trovare un lavoro onesto, quando non sei nessuno e hai vissuto di un calcio malpagato per mesi e mesi. Ero entrato per chiedere l’elemosina in quell’oratorio. Avevo visto dei ragazzini che entravano e uscivano dalla porta con del pane spalmato di marmellata in mano. Avevo aspettato che qualcuno di loro lo buttasse via, ma niente. Lo avevano mangiato tutto. Non avevo mai chiesto la carità, nemmeno in Camerun. Eravamo poveri, ma mia madre mi aveva sempre insegnato che ciò di cui avevamo bisogno ci sarebbe stato dato, in un modo o nell’altro. Quando sono arrivato in Italia ho capito che quella non sarebbe stata la terra promessa, ma il luogo in cui anche la fede più fervente poteva vacillare. Comunque sia, sono entrato per chiedere un po’ di pane con la marmellata e un po’ d’acqua per rinfrescarmi. Sono entrato e non sono più uscito. Sono entrato in una comunità, mi hanno ospitato, cresciuto. Non mi hanno mai chiesto da dove venissi, né quali sofferenze avessi vissuto. Ogni volta che pensavo a mia madre alzavo gli occhi e vedevo intorno a me qualcuno che, nonostante i miei silenzi, credeva ancora in me. Quando trovai un lavoro part time in periferia credevo di sprofondare dalla vergogna, perché nessuno mi aveva offerto un incarico a tempo pieno. Ma don Claudio fu orgoglioso di me, mi disse che sono le chiavi piccole ad aprire le porte grandi. Ci ha creduto e ha fatto in modo che io ci credessi con lui. Ho imparato un mestiere ed ho incominciato a lavorare in un’officina. Lo stipendio mi ha permesso di mantenere una moglie e tre figli e di sollevarmi dalla polvere nella quale ero caduto. Ho sempre conservato il mio pallone. Lo prestavo di tanto in tanto ai miei bambini, li guardavo giocare. E intanto pensavo ai miei fratelli, agli amici che avevo lasciato in Camerun. A quegli amici che avevano sognato di diventare calciatori insieme a me e che invece erano rimasti soli a guadagnarsi la vita giorno per giorno. Pensavo a quel mercante di felicità, a quanti altri ragazzi aveva comprato per pochi spiccioli per poi abbandonarli nella solitudine e nella miseria a mendicare un pezzo di pane e una pacca sulla spalla come anch’io avevo fatto. Pensai che, allora, potevo fare qualcosa. Sono tornato in Camerun. Senza auto di lusso, ma con una valigia di vestiti miei e un gruzzoletto per comprare una casa grande abbastanza con un campo attorno. Un campo che è diventato la mia seconda casa, il mio nuovo lavoro. Mi sono inventato una vita mia e aiuto coloro che non hanno altro che sogni a credere in se stessi senza farsi truffare. Gestisco una piccola comunità ed una società sportiva calcistica. Insegno ai ragazzi a giocare e faccio in modo che quelli più promettenti finiscano in mani sicure, verso carriere promettenti o comunque adeguatamente retribuite. Qualcuno ce la fa. E quelli che non ce la fanno sanno di poter tornare. Li riaccolgo tutti e faccio in modo che imparino un mestiere e possano crescere in maniera dignitosa la loro famiglia. Nonostante la sofferenza ho ricevuto molto, molto più di quello che ho perso, anche se allora credevo di aver perduto l’occasione della mia vita. Oggi invece guardo questo campo vuoto, ma che domani mattina alle prime luci dell’alba si riempirà di nuovo, e penso che la vita è tutta qui. In questa terra e in questo pallone, che stringo tra le mani come quella dignità che nessuno potrà più strapparmi.

Monica Betti

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