Appresi dell’esistenza di zio Aldo solo quando avevo quindici anni. Era uno degli zii di mia madre, nato nei primi anni venti, fratello di mio nonno. Era uno dei due fratelli disabili di mio nonno. Ha vissuto in un centro, chiamiamolo così, quasi tutta la sua vita. In pochi sapevano della sua esistenza, in quegli anni da molte famiglie veniva vissuto come un disonore l’avere figli con disabilità. La mia bisnonna ne aveva sofferto moltissimo, soprattutto perché due dei suoi tre figli maschi non erano stati in grado di vivere la vita in piena autonomia. Il suo nome venne pronunciato per caso da mia madre, in un giorno qualsiasi, ma che io ricorderò tutta la vita. Non le ho dato pace finché non mi ha raccontato la sua storia, o meglio quel poco che sapeva. Era nato in seguito ad un parto molto difficile, fin da piccolo aveva manifestato comportamenti stravaganti, non aveva mai imparato a leggere e a scrivere, non poteva essere lasciato solo perché aveva la tendenza a scappare, quando era giovanissimo era stato internato in un reparto e lì era rimasto tutta la sua vita. Quando lei era piccola qualche volta lo avevano portato a casa, per qualche festa o occasione particolare, ma poi non ci era tornato più. Questo era tutto quello che sapeva. Mi era stato appena svelato uno dei tanti segreti della mia famiglia. Quando compii diciotto anni chiesi un regalo: conoscere zio Aldo. Mio nonno acconsentì a patto di essere lui stesso ad accompagnarmi. Durante il viaggio mi raccontò cose che non aveva mai detto a nessuno: che lui, dopo il suo ricovero definitivo, non aveva mai smesso di andarlo a trovare; ci andava tutte le settimane, da oltre settant’anni, all’insaputa di tutti, per fargli un po’ di compagnia, per portargli qualche dolce o qualche oggetto che lui puntualmente barattava con delle sigarette; è mio fratello, continuava a ripetermi. Era tutto ciò che restava della sua famiglia. Mi disse che era stato contento che io fossi venuta a conoscenza della sua esistenza e che avessi deciso di incontrarlo, era come se qualcuno finalmente potesse capire il suo bisogno di riallacciare tutti i confini della propria esistenza. Non aveva potuto mai raccontare a nessuno né dei suoi ricordi d’infanzia né delle sue visite segrete, sua madre glielo aveva proibito, le convenienze del tempo glielo avevano proibito. Mi disse che i suoi genitori temevano che le sue sorelle non si sarebbero mai sposate se i generi avessero saputo di una simile tara familiare. In seguito, aveva temuto la stessa sorte per le sue figlie. Ma ora non c’era più nulla da nascondere. Tutte le femmine della famiglia erano felicemente sposate e avevano avuto figli a loro volta. Ed io non avevo paura, anzi, avevo cominciato l’ultimo anno di liceo annunciando alla mia famiglia che mi sarei iscritta a Psicologia con il preciso intento di lavorare nell’ambito della disabilità e della riabilitazione. ll nostro incontro è stato qualcosa che porterò sempre nel cuore. Ricordo gli occhi di mio nonno che brillavano di gioia mentre mi mostrava a suo fratello e gli chiedeva: “Lo sai chi è lei?”; e lui rispondeva: “Me neuda”, mia nipote, in dialetto veneto. Non aveva mai imparato a parlare l’italiano. Mi abbracciò forte. Uno di quegli abbracci che non si dimenticano e che sono capaci di cambiarti la vita. Normalmente le giornate internazionali che celebrano una qualche categoria di umanità dovrebbero spingere ai ragionamenti ed ai bilanci. Oggi la condizione delle persone con disabilità è in parte diversa. Esistono l’inclusione e l’integrazione. Ma esistono anche i pregiudizi, quei pregiudizi che fanno ancora sì che le persone con disabilità svolgano prioritariamente occupazioni che corrispondono ad uno stereotipo: lavori poco impegnativi, che spesso non incidono nel reale bilancio delle aziende e che non rivestono un’autentica utilità. Sono ancora sostanzialmente precluse alle persone con disabilità molte delle attività di svago e tempo libero delle quali usufruiscono le persone normodotate.Quando penso ai diritti delle persone con disabilità penso a mio zio Aldo. Penso ai suoi occhi mentre mi vedeva per la prima volta, mentre si sgretolava uno dei segreti più assurdi della nostra vita, ma che era stato capace di segnare l’esistenza di tutti. Il suo ricordo accompagna ancora il mio lavoro e la mia vita di ogni giorno. A volte penso che i bilanci e i ragionamenti dovrebbero lasciare più spazio all’incontro, quello vero, con le persone che vivono una qualche specificità. Perché nel mio caso la disabilità non ha caratteristiche e condizioni. Ha mani, braccia, corpo. E occhi. Quelli di mio zio.