Dal muro dei post-it sulle cose che non funzionano alla consapevolezza che aggiustarle dipende anche dai ragazzi. Un esperimento in una scuola media lombarda fa comprendere le potenzialità e le idee che sarebbero a disposizione degli amministratori 

Come ci parla una città quando impariamo a leggere? La città è satura, normata, iperregolata, le didascalie che abbiamo messo alle cose sono queste – divieti, cartelli, orari, regole di utilizzo – e gli oggetti e i simboli – semafori, separatori del traffico, strisce pedonali, ecc. – parlano lo stesso linguaggio, evocano una selva di regole da apprendere. Guido Martinotti diceva a lezione che il traffico “è il più grande esperimento di divisione del lavoro della modernità”: quando sorvoli una metropoli in prossimità di un atterraggio con l’effetto ralenty della visione dall’alto ti colpisce la compostezza e l’ordine dei movimenti, soprattutto se penso all’inferno che è ad altezza uomo, forse ancor più per me che giro in bicicletta. Ma quella divisione, quella compostezza, quell’equilibrio in regime di traffico automobilistico si paga in cartelli, regole e divieti, in un regime spietato di attenzione, proprio come in fabbrica. Così, quando ti affacci da bambino alla città, tutto è molto complicato, sembra uno spettacolo “vietato ai minori”: dovrai stare attento a tutto, ci avrai messo meno tempo ad imparare a camminare in casa che a farlo fuori.

Non è solo lo spazio urbano a risultare estremamente “normativo e prescrittivo”, quasi tutti i luoghi che si frequentano da bambini e da ragazzi sono fatti così, rigidamente regolati, immodificabili, pensati per adulti immobili e seri, alieni al gioco e al movimento che invece avresti come disposizione naturale a quell’età. Mentre le merci e fra queste i nuovi giocattoli provano a fare a meno dei fogli di istruzioni, rendersi fruibili all’istante nascondendo la loro complessità tecnologica, l’ambiente urbano è impenetrabile, immodificabile e severo – in un parco giochi all’ingresso c’è scritto cosa non puoi fare –sembra spesso pensato più per le automobili che per i pedoni. Non sarà che questo finisce per alimentare un’infanzia consumista perché reclusa nella cattività domestica? Davvero non è possibile una cittadinanza praticabile da piccoli?

Esperimento
Hanno provato a rispondere a queste domande  genitori e assessori sensibili a questi temi, alla scuola media di Olginate, provincia di Lecco, durante una tre giorni dal sapore libertario. Una mattinata, 130 ragazzi e ragazze, sullo sfondo la Convenzione dei diritti dell’Infanzia di New York come riferimento, perché l’art.12 sentenzia il diritto ad esser consultati per ciò che li riguarda e l’Italia l’ha ratificata nel 1991. Si inizia col puro gioco di immaginazione, per rompere il ricatto del quotidiano, “spegnere la luce” per riuscire a vedere altro da quel che c’è: basta trasformare la città proiettata come immagine ripresa dall’alto attraverso Google Earth sul muro, con la libertà di farlo scrivendo sui post it cosa cambiare e come, per poi appoggiarli in corrispondenza dell’immagine videoproiettata.

La città immaginata diventa una prateria di verde e di gioco, nascono campetti e una piscina, la scuola subisce parecchi colpi: la chiave di lettura è semplice, l’infanzia chiede l’aperto, non vuole edifici ma prati e campi, la forma più istintiva di cittadinanza è il gioco all’aperto, che qui non si esplicita quasi mai come richiesta di infrastrutture ma di spazi liberi. Quanti Piani di Governo del Territorio in Italia hanno accolto questo principio ispiratore? Intanto viene in mente “Il bambino e la città” di Colin Ward, in cui si spiega come lo spazio ideale di gioco all’aperto sia il semplice mucchio di sabbia, modificabile e utilizzabile in mille modi, proprio perché privo della carica prescrittiva di molti altri giochi e di tutti i giocattoli…

Non è giusto che
L’antropologo Appadurai fa notare che il difetto della cultura è quello di concentrarsi sul passato, di proporsi come una rassegna di cose e opere già avvenute e già fatte, mentre il futuro è stato lasciato all’economia. Ed è vero che a scuola si parla del passato, raramente del presente, mai del futuro: potrà mai funzionare questo sistema con chi biologicamente è proiettato sul futuro e vive il presente con enorme enfasi per l’ovvia ragione che molto di ciò che vive è nuovo? Perché non mettere a tema nella scuola aspirazioni, progetti, desideri, intenzioni e tensioni di ragazzi e ragazze?

Così, dopo l’esercizio di fantasia precipito nella realtà, in classe introduco il tema dei diritti: racconto del senso di ingiustizia provato molte volte alla loro età, per esempio quando si trasformò il cortile dove abitavo in parcheggio e nessun bambino del palazzo poté più scendere a giocare a pallone. L’invito è a proseguire l’incipit “Non è giusto che…”: ragazzi e ragazze si illuminano, si vede subito che è come aver tolto un tappo, tutti i bambini hanno dentro il segreto dell’ingiustizia patita, in un attimo il pannello si riempie di post it. C’è di tutto, l’enciclopedia dell’ingiustizia patita ha toni e temi molto vari: c’è il solito accanimento contro la scuola – che dura troppo, che ha intervalli troppo brevi, che costringe sempre ai compiti, ecc. – e tutto questo non sorprende ma nemmeno esenta dall’interrogarci sulla coazione dell’infanzia ad un luogo così poco amato. C’è il rammarico sulle cose che non funzionano nella città oppure su quelle che mancano, ma in generale si lamenta l’impossibilità di qualcosa: non si può giocare a scuola perché la palestra è da sistemare e nemmeno fuori perché le auto passano da ogni strada o non ci sono campi da gioco, non si può viaggiare perché costa troppo, ecc.

Ma altre fra quelle ingiustizie additano cose che si prestano ad un’interessante presa di consapevolezza: se non è giusto che le strade siano sporche ci chiediamo chi le sporca non perché non siano state pulite, e pure le macchine che impediscono di giocare c’è la possibilità che siano quelle della propria famiglia. Il gioco funziona, sono i ragazzi stessi ad accorgersi nel dibattito che molte cose dipendono da loro.

Lettera alla mia città
Il finale dell’esperimento richiede la catarsi, così propongo una sorta di messaggio in bottiglia per il sindaco, Rocco, con il quale i patti sono chiari, anche perché lui di educazione si occupa: quella sera in città ci sarà una sala con un’installazione particolarissima, 130 lettere appese ai fili con mollette, genitori, insegnanti e chiunque altro potrà leggerle, col sindaco e tutti quanti ci ragioneremo tutta la sera, insieme, per assumerci la responsabilità delle risposte.

Ma intanto la mattina i bambini scrivono, le lettere sono più indulgenti della grida di ingiustizia, l’incipit del “Cara Olginate…” umanizza la relazione, si perdonano i difetti, si danno raccomandazioni, si dichiara il proprio legame, il proprio amore. Perché a 12 anni la città cominci a viverla, alle scuole medie spesso ci vai da solo, percorri le strade, cominci ad avere luoghi di ritrovo con gli amici, e allora ti accorgi se è pulita, se è sicura. Ma il legame è con la natura, le lettere sono un coro a difesa del verde e dell’acqua, se vuoi dare un habitat per l’infanzia è chiaro cosa devi fare e non fare.

A fine serata, mentre guardi la scuola che si svuota, ti viene in mente che sicuramente quelle aule saranno in periodo elettorale sede di seggi e proprio in quei giorni gli alunni non potranno andarci, il rito delle elezioni li esilia, così che per loro sarà sinonimo di vacanza. Che strano, è un mondo alla rovescia, però con post it, fogli e mollette si può raddrizzare un po’.

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