Caro figlio mio,
ti sembrerà strano, ma avevo previsto che, ad un certo punto della mia vita, ti avrei scritto una lettera. Quello che non avevo immaginato è che l’avrei scritta nel momento in cui mi sembra di essere con meno prospettive, con meno possibilità da offrirti. Io e tuo padre abbiamo passato anni a sognare il tuo futuro, a chiederci cosa avresti scelto di studiare, come sarebbe stato il tuo esame di maturità, il tuo ingresso all’università. E’ bastato pochissimo ed oggi tutto questo ci sembra un sogno lontano.
Oggi non sappiamo nemmeno se lo farai, questo benedetto esame di maturità. Avremmo voluto regalarti una festa, un viaggio, probabilmente non avremo nemmeno la soddisfazione di vedere i quadri con i tuoi voti a scuola. Eppure, è come se la mia delusione fosse più grande della tua. Abbiamo passato tanti anni a pensare che foste una generazione di giovani viziati, che non sapevate apprezzare nulla della fatica che noi avevamo fatto. Vi abbiamo chiamato gli adolescenti fast food, quelli che consumano tutto velocemente: il cibo, l’amore, la vita. Adesso che ci penso, erano le stesse cose che mio padre diceva di noi. Forse, semplicemente, proviamo invidia per chi ha ancora gioventù e forze per godere di quello che con fatica abbiamo costruito e che, a volte, non ci siamo mai voluti dare il tempo di gustare. Siamo stati genitori egoisti. Tutti. Piccolissimi vi abbiamo messo in mano il computer prima e il telefono poi: perché non viveste il gap digitale che molti di noi avevano dovuto colmare, ci siamo detti. Mentivamo. Mentivamo a noi stessi e a voi. Era più semplice sapervi a guardare un video, a giocare al computer, mentre noi eravamo troppo occupati a fare altro. E quando ci siamo accorti che quello schermo era l’unica entità con la quale riuscivate ad entrare in relazione abbiamo sbagliato ancora. Perché, invece di assumersi le proprie responsabilità come qualsiasi genitore avrebbe dovuto fare, abbiamo dato la colpa a voi. Vi abbiamo chiamato nativi digitali, geneticamente anaffettivi. E abbiamo dimenticato che eravate figli nostri e che avete assorbito il calore umano che siamo stati in grado di trasmettervi. Ma sbaglio ancora. Avete fatto di più, più di quello che la nostra generazione sia stata capace di fare da questo punto di vista. Non è vero che avete giocato al ribasso, sai? Me ne sono accorta l’altro giorno, quando di nascosto ho letto le chat del tuo cellulare. Ora ti arrabbierai. Lo faccio da sempre. Da sempre controllo il tuo telefono. E’ l’anestetico per la mia coscienza. Ti ho dato in mano uno strumento che non sono stata in grado di insegnarti ad usare, ma ho sempre controllato quello che facevi. Non dubitavo di te. Dubitavo di me. Anche se non l’ho mai ammesso con me stessa, il fatto di non trovarci niente di grave mi faceva sentire che, in qualche modo, eravamo stati dei buoni genitori. In ogni caso ieri sera, mentre ti facevi la doccia, di nascosto ho letto i messaggi che hai mandato alla tua amica. Nell’ultimo di questi le hai scritto “ci sono e ci sarò sempre per te”. Non ci crederai, ma ho pianto. Ho pianto perché mi sono commossa al pensiero che mio figlio fosse in grado di esprimere in una frase così corta un messaggio così profondo. Ho pianto perché mi sono vergognata per la poca fiducia che ho sempre avuto. E ho pianto perché, all’interno di un messaggio, che così tanto abbiamo criticato, perché vi abbiamo sempre detto che eravate quella generazione capace solo di scriversi mille messaggi per non dirsi niente, ho sentito il calore umano che, in tante delle frasi che noi vi abbiamo detto, probabilmente voi non avete sentito. Ma non eravate voi a sbagliare o a non capire. Quante volte vi abbiamo detto “ci sono” e poi non c’eravamo? Io non ci sono state tante volte e ti sembrerà assurdo, ma me ne rendo conto solo adesso che sei grande e che, tra poco, non avrai più bisogno che io ci sia. Ti ammiro sai? In un momento così drammatico, in cui a noi sembra complicato tutto, tu e i tuoi amici siete stati in grado di tirare fuori una determinazione ed una dignità che non immaginavamo possedeste. Ci vuole coraggio, ci vuole buona volontà, per portare avanti lo studio a distanza. E quel benedetto cellulare che abbiamo demonizzato in così tante occasioni, in realtà è ciò che vi permette adesso di non sentirvi soli. Esso è l’elemento di continuità in un tempo in cui ci stiamo abituando a pensare che niente sarà più uguale a prima. Il futuro non vi spaventa, o almeno non lo date a vedere. Pensavamo che foste degli incoscienti e invece avete colto l’unico modo per poter andare avanti: coltivare la speranza. Noi siamo stati la generazione del “se non vedo non credo”. Mi rendo conto adesso che, invece, nonostante il nostro insegnamento, voi siete stati capaci di credere a tante cose che non vedevate: che saremmo stati capaci di risvegliare un senso di umanità, che avremmo imparato a compiere qualche sacrificio, che avremmo potuto essere migliori di quello che eravamo. Ti guardo e capisco che, questa profonda crisi umana, dovrete essere voi ad aiutarci a superarla. Dovrete prenderci per mano e dovrete avere pazienza, sai? Perché noi ci scoraggiamo in fretta, non siamo abituati a rinunciare alla nostra libertà. Noi i cambiamenti li riteniamo ingiusti. Voi, invece, è da quando siete nati che vi cambiamo continuamente le carte in tavola e perciò ci siete abituati. Continuate a dimostrarci che possiamo portare la nostra vita ovunque, basta solo che lo vogliamo.