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Prisca Puntoni, una delle protagoniste di Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno, è la figlia di una famiglia benestante dell’Italia del dopoguerra. Il primo giorno della quarta elementare fa la conoscenza della nuova maestra, la signora Argia Sforza, e di due nuove compagne di classe, Iolanda e Adelaide, provenienti dal quartiere più povero della loro città. Ben presto Prisca si accorge di come la famiglia di provenienza incida sul percorso scolastico e sociale di ognuna delle sue compagne: non solo perché la sua stessa classe è divisa in piccole fazioni, costituite dalle figlie di industriali, di medici e di avvocati, di commercianti, piuttosto che dalle figlie di una sartina a ore o del bidello della scuola, ma perché a rinforzare il concetto che le origini siano determinanti per capire se e di che tipo possa essere il successo scolastico delle allieve è proprio la stessa maestra.

Quella maestra di una scuola pubblica che, invece di preparare allo stesso modo tutte le sue alunne, non fa altro che accrescere le differenze e le disparità prendendosela proprio con Iolanda e con Adelaide, non perdendo occasione per umiliarle e discriminarle. Non c’è nessun adulto a difendere la dignità ed i diritti dei bambini negli anni Cinquanta. Nessun genitore segnala alla direttrice della scuola o all’ispettore le vessazioni subite da Iolanda e da Adelaide quotidianamente; anzi, l’operato della maestra è giudicato encomiabile, visto che la maestra stessa si propone di preparare le alunne non destinate all’avviamento (la scuola media di chi non avrebbe proseguito gli studi alla scuola superiore) al “salto”, ovvero ad un esame che consentirà loro di saltare la quinta elementare e di passare direttamente alle medie. A difendere i diritti e la dignità negata di quelle bambine predestinate ad un futuro di povertà ci sono solo Prisca e le sue due inseparabili amiche, Elisa e Rosalba, che utilizzeranno ogni mezzo per mettere in evidenza l’ipocrisia della maestra, che rappresenta l’ipocrisia della società borghese. Ci riusciranno, riusciranno a far scendere la maestra Argia Sforza dal quel piedistallo di mellifluità e di sottomissione al più potente, ma non servirà a restituire ad Adelaide e a Iolanda la dignità perduta: verranno comunque espulse dalla scuola vanificando tutti i loro sacrifici e le loro lotte. E la maestra resterà al suo posto, intoccabile nella sua veste professionale che maschera un’inumana malvagità. Quanta povertà educativa nel romanzo di Bianca Pitzorno. La povertà educativa di famiglie che, divorate dalla scarsità di mezzi economici, antepongono la sopravvivenza quotidiana al benessere dei loro figli. Al successo scolastico di Iolanda e di Adelaide non ci credevano nemmeno i loro genitori. Non solo. Non era necessario: non era necessario che andassero bene a scuola, perché quel tempo passato presso la scuola dell’obbligo era tempo sottratto alla ricerca di espedienti per portare a casa del pane, delle medicine, per soffiare il naso ai fratelli più piccoli. Ma è anche la povertà educativa di una classe docente che, probabilmente per un retaggio degli anni del fascismo, è fondamentalmente convinta che la classe sociale vada preservata e che vada apposto un giusto divario tra chi può e chi non può. È la povertà educativa delle famiglie che, anche quando predicano l’uguaglianza e la parità di diritti, di fatto impediscono alle proprie figlie di giocare con bambine non appartenenti alla loro classe sociale, donano scarpe, indumenti e giocattoli alle famiglie meno abbienti considerandoli un’elemosina, pensano che la maestra abbia delle ragioni a punire severamente e fisicamente le alunne (povere) che non rispettano le regole. È la povertà educativa di bambine che sono predestinate, in base alla classe sociale di appartenenza, ma anche per il fatto di essere femmine, ad una vita che non sempre può dipendere dalle loro scelte e dalla loro volontà. Ascolta il mio cuore è ambientato negli anni Cinquanta, ma mentre lo leggiamo ce ne dimentichiamo. Iolanda e Adelaide sono oggi i tanti studenti italiani, ma anche marocchini, indiani, senegalesi, nigeriani, brasiliani, cinesi, rumeni, albanesi, macedoni, studenti provenienti da ogni parte del mondo, studenti con difficoltà linguistiche e comunicative, con disturbi dell’attenzione, con disagio emotivo e relazionale, tutti gli studenti che oggi inseriamo nella macro-categoria dei Bisogni Educativi Speciali. C’è qualcosa di male ad avere bisogni speciali? Certamente no. Ma l’essere speciali non deve precludere la possibilità di avere accesso alla normalità. E se oggi non abbiamo più, o meglio non dovremmo più avere, insegnanti che vessano i bambini in oggettiva difficoltà, abbiamo purtroppo ancora insegnanti e genitori che pensano che esistano bambini, loro malgrado, predestinati. In che cosa si traduce questa consapevolezza? In un disinvestimento emotivo, relazionale, didattico, affettivo che, in buona sostanza, produce la cosiddetta profezia che si autoavvera. Esistono, ovviamente, anche esempi virtuosi. Ricordo Giuseppe, figlio di due genitori italiani che si erano trasferiti in Romagna dalla Campania. Quando Giuseppe arrivò al servizio sociale e di neuropsichiatria infantile, il padre mi chiese di leggergli il modulo della privacy, perché lui non ci riusciva. Non sapeva nemmeno fare bene la firma, ma trovammo il modo di metterlo a suo agio. “Lo so che a scuola dicono che mio figlio ha tanti problemi, ma io voglio che Giuseppe faccia una vita diversa dalla mia”. Il padre di Giuseppe chiamava professoresse le insegnanti della scuola dell’infanzia e lo faceva con quel rispetto reverenziale che rinnovava ogni giorno la sua consapevolezza di appartenere ad uno strato inferiore della società. “Qui a scuola ci chiamiamo tutti per nome e ci diamo del tu, perché insegnanti e genitori lavorano insieme per il benessere dei bambini” questo disse un’insegnante al papà di Giuseppe uno dei primi giorni. E quando alzava lo sguardo dalla mia scrivania e mi chiedeva: “Ma ce la farà dottorè?” non mi stancavo mai di dirgli: “ Se crediamo che ce la possa fare, ce la farà”. Giuseppe era un bambino con una profonda difficoltà relazionale che per i primi anni della sua vita aveva vissuto in un contesto familiare molto povero, dal punto di vista economico e culturale. Ma nei suoi genitori era presente un forte desiderio di riscatto, per questo avevano deciso di trasferirsi con tutta la famiglia, per poter avere un lavoro stabile e meglio remunerato e poter garantire così ai figli di studiare. Quando Giuseppe è arrivato a scuola e al nostro servizio, aveva gli occhi più spaesati che io avessi mai visto. Negli anni della scuola dell’infanzia e, soprattutto della scuola primaria, sono state tante le volte in cui ci siamo incontrati con gli insegnanti, con i genitori, a volte con Giuseppe stesso perché aveva avuto l’ennesimo episodio di aggressività, perché aveva cercato di scappare dalla scuola, perché si era rifiutato di fare i compiti. Ed ogni volta era necessario rifare il punto sulle sue effettive competenze, sull’aiuto che si poteva richiedere alla famiglia, sulle strategie che gli insegnanti potevano mettere in atto. Ed ogni volta era necessario ripetere: “Se crediamo che ce la possa fare, ce la farà”. Una volta un’insegnante mi disse: “Questo bambino rischia molto”. Era un momento molto critico: gli insegnanti avevano la consapevolezza di quanto questo disagio emotivo impattasse sulla riuscita scolastica, sulle relazioni con i pari. Era vero, rischiava molto. Ma ogni caso complesso è una sfida con la nostra tentazione, tutta adulta, di abbandonare i bambini ad un destino segnato. Sono ancora molte le volte in cui, come insegnanti, psicologi, assistenti sociali, siamo tentati di dire: “Si fa quel che si può”. La vera sfida non è fare quello che si può, è fare di più. Che non significa fare i miracoli, ma significa andare oltre noi stessi e quello che vediamo per far sì che lo vedano anche le persone che la povertà educativa la vivono ogni giorno. Perché i primi a sentirsi senza possibilità sono proprio loro. Non possiamo cambiare i contesti. Abbiamo dovuto guidare la mano del papà di Giuseppe ogni volta che ha dovuto fare la firma sulle pagelle, sulle giustificazioni, sugli avvisi. Ma non l’abbiamo mai fatto sentire un semianalfabeta; guidavamo quella mano non con la compassione di chi pensa che quel poveretto non sapeva nemmeno fare una firma, ma con quel calore relazionale che serviva a fargli sentire che, finché ci saremmo stati noi, poteva fidarsi a firmare qualsiasi cosa, perché eravamo dalla sua parte. Abbiamo continuato ad andare da Giuseppe ogni volta che si arrabbiava e scappava dalla classe. E quella volta che, piangendo, ci disse: “Io sono cattivo” lo abbracciammo forte e gli dicemmo che, se solo avessimo pensato una cosa del genere, non saremmo stati lì. E invece c’eravamo perché noi credevamo che lui ce la potesse fare ad imparare a leggere, a scrivere, ad arrabbiarsi senza scappare e senza far male a nessuno. “Oggi non sono scappato” mi disse un giorno vedendomi a scuola. “E neanche domani scappo”. Qualche volta scappò ancora; ma cominciò a non scappare più. Probabilmente quella rete di relazione che gli avevamo costruito intorno, prima di pretendere da lui prestazioni, cominciava a sortire il suo effetto. Anche i genitori sono andati oltre le loro possibilità: hanno investito emotivamente in un percorso scolastico e di aiuto che nemmeno loro avevano vissuto. Quando si impara a fidarsi di qualcuno che non si conosce e che, nella propria esperienza, come erano state le insegnanti dei genitori di Giuseppe, non ha sortito alcun effetto benefico, si è andati ben oltre ciò che era lecito fare. E Giuseppe? Giuseppe frequenta ora la scuola secondaria di secondo grado. Senza sostegno. Perché le povertà educative si possono contrastare? No. Perché le povertà educative si possono accogliere. Si possono prendere le famiglie per mano e guidarle verso un nuovo percorso di consapevolezza e fiducia. E quando le povertà educative vengono accolte, spesso per quei bambini e per le loro famiglie si può scrivere un’altra storia.