Violenza di genere: la tutela giurisdizionale civile, luci e ombre sulla protezione del genere femminile vittima di violenza.
Nel corso degli anni di esercizio della professione forense, posso affermare che, ancora oggi, non è possibile per un avvocato familiarista abbassare la guardia sul fenomeno della violenza intra familiare (espressione, anch’essa, della violenza di genere), i cui segnali e le cui tracce talvolta non emergono dalle narrazioni delle nostre assistite, per le più svariate ragioni: inconsapevolezza, vergogna del giudizio, paura per le ripercussioni sui figli e il timore che vengano loro “portati via”, paura delle reazioni di partner violenti, timore del discredito nell’ambito parentale allargato, isolamento, paura sull’organizzazione della vita futura e dei possibili disagi economici. La mia conoscenza esperienziale mi porta a contatto con le storie di molte donne, i cui drammi personali, le difficoltà relazionali con il partner, le fatiche della maternità e della relazione genitoriale, le situazioni drammatiche di violenza fisica/psicologica/economica rimangono spesso sottotraccia nelle loro vite, fino all’emersione nel contenitore del processo, nel quale trovare “giustizia e tutela”. Ma è sempre così e in che misura?
Qui vorrei provare a esporre alcune mie riflessioni, come dialogo aperto e di confronto, perché un avvocato che si occupa di queste tematiche e di questi casi (pur avendone acquisto la competenza sul campo processuale) non può prescindere dal coinvolgimento di altre professionalità. Mi riferisco agli assistenti sociali e alle agenzie territoriali incaricate della presa in carico di nuclei familiari in difficoltà, agli esperti della salute mentale, della psichiatria, della neuro psichiatria infantile, ai consulenti tecnici d’ufficio nominati dal giudice e ai propri consulenti di parte, tutti soggetti che, di volta in volta, possono essere coinvolti nelle dinamiche di un processo civile, che vede donne e madri destinatarie di provvedimenti giudiziali, che andranno ad involgere la loro sfera personale, relazionale, genitoriale, economica, nella complessità dei loro vissuti.
Il concetto di gender. Mi permetto, prima di tutto, un breve inciso introduttivo, quello di rammentare (per quanto agli addetti ai lavori sia ben noto) un profilo imprescindibile per chi si occupa di diritto di famiglia, che è la conoscenza del fenomeno della violenza di genere non solo sotto il profilo giuridico, ma anche sotto quello storico e terminologico, perché sappiamo come le parole siano pietre miliari della conoscenza. Mi riferisco al termine gender, in italiano genere, «un concetto di diritto anglosassone nato dai gender o womens’studies: una corrente di pensiero socio-giuridica diffusasi negli anni ottanta/novanta, nel cui ambito sociologhe e giuriste del calibro di Carol Gilligan e Catharine Mackinnon hanno dato avvio a una nuova cultura per portare, all’interno del ragionamento giuridico e della prassi giudiziaria, le tematiche legate alla parità sessuale e, appunto, al genere. Si tratta di un concetto articolato, che comprende almeno tre sub categorie: l’identità di genere, il ruolo di genere e l’orientamento sessuale» (Fabrizio Filice, “La violenza di genere”, Giuffrè, 2019).
Per quanto qui d’interesse, la definizione di violenza di genere (gender based violence) e, nello specifico, di violenza domestica, si rinviene nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata con Legge 23 giugno 2013 n. 77.[1] Si è trattato del primo strumento internazionale dall’efficacia vincolante, volto a creare un quadro normativo completo nella lotta alla violenza di genere.
La violenza di genere è, quindi, definibile, come la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere. Il bene giuridico tutelato, sottostante al contrasto alla violenza di genere, consiste nel diritto alla autodeterminazione rispetto al genere, senza subire costrizioni, né a livello sociale, né alla sfera delle relazioni private. Con “autodeterminazione di genere” s’intende un bene giuridico individuale, un bene finale e di rango superiore, in quanto gode di una protezione in sé e per sè, correlato ai diritti fondamentali della persona (cfr Filici, op. cit.). In buona sostanza, il bene giuridico così tutelato (nella declinazione della Convenzione di Istanbul) si sostanzia dunque: nella consapevolezza della violenza come una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali fra i sessi; nella condanna di ogni forma di violenza contro le donne; nella denuncia e nella protezione da ogni forma di violenza; nel diritto di ogni donna di vivere libera dalla violenza.
Il processo civile e la tutela contro la violenza di genere e la violenza domestica. Mentrerinvio alla precedente sessione, nella quale è stata sviluppata la disamina più propriamente legislativa e normativa del contrasto alla violenza di genere (il c.d. codice rosso, la repressione in ambito penalistico dei reati di genere, i delitti relazionali, gli ordini di protezione), qui mi occuperò delle tutele offerte dal sistema giustizia in ambito civilistico, non senza esporre alcune considerazioni, che sono il frutto della mia esperienza professionale, riflessioni e dubbi sulla incisività della tutela giurisdizionale, se non accompagnata anche da altri efficaci strumenti.
Sicuramente, nell’ambito civilistico del nostro ordinamento, una importante tutela è rappresentata dall’introduzione nel codice civile e nel codice di procedura civile, rispettivamente, degli articoli 342 bis e ter c. c., e 736 bis c. p. c., ad opera della legge 4 aprile 2001 n. 154, recante «Misure contro la violenza nelle relazioni familiari». Si tratta degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, che prevedono la facoltà per il giudice di disporre una serie di provvedimenti dal contenuto cautelare, di cui all’art. 343 ter, quando «la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente». La normativa[2] è stato il frutto conseguente all’approfondimento e alla campagna di sensibilizzazione sul fenomeno della violenza che colpisce persone legate da vincoli familiari, in particolare donne e minori; laddove, sotto il profilo fenomenologico, da un lato, attiene alla relazione tra i sessi, annidandosi nello squilibrio relazionale tra soggetti legati affettivamente; dall’altro, su un piano sociale, fatto ancora da stereotipi e da convenzioni che pongono la donna in una dimensione di passività e di soggezione[3]. La novità e il carattere originale della disciplina civilistica degli ordini di protezione, come ulteriormente novellata con la Legge n. 304/203, consiste, fra l’altro, in una maggiore efficacia di tutela rispetto alle fattispecie di maltrattamento ammesso dall’ordinamento penale, lasciando alla vittima la scelta sull’autorità giudiziaria da adire.
Tuttavia, la peculiarità della natura giuridica degli ordini civilistici di protezione è quella di una tutela inibitoria, nel senso che il rimedio opera con lo scopo di far cessare la condotta pregiudizievole in atto ai danni della vittima e di tale gravità da essere meritevole di una contrazione delle libertà dell’abusante (allontanamento, divieto di avvicinamento, divieto di frequentazione dei figli, se non in ambito protetto). Proprio l’incidenza dell’ordine di protezione sulla libertà personale dell’abusante «contrasta con la possibilità che esso possa essere emesso prima del verificarsi dell’evento lesivo». Di conseguenza, al contrario di quanto accade per i provvedimenti cautelari d’urgenza (concessi anche sulla scorta di un semplice pericolo di compromissione di un interesse degno di tutela), «nel caso degli ordini di protezione la tutela inibitoria si attiva solo successivamente al realizzarsi dell’evento dannoso, inteso come grave pregiudizio inferto ad interessi preventivamente individuati dal legislatore»[4] .
Ne consegue che «in capo all’autorità giudicante sorge pertanto il compito di contemperare attentamente e caso per caso interessi quale l’integrità fisica e morale della vittima e le libertà fondamentali dell’abusante: la limitazione delle prerogative dell’abusante non deve infatti perdurare oltre quanto necessario per far cessare l’abuso» (cfr op. cit.). Dalla Relazione n 5979-A, introduttiva alla legge n. 154/2001, viene chiaramente esplicitato che la limitazione delle libertà fondamentali è giustificata dalla gravità del comportamento assunto dal colpevole, che si traduce nella sfera psico-fisica e morale dell’abusato. Inoltre, l’inibitoria ha una durata che non può essere superiore a un anno, salvo la proroga, che va richiesta, in caso del perdurare dei gravi motivi, con apposita istanza, da presentarsi prima della scadenza del termine prefissato dal giudice.
Una prima riflessione. I casi da me trattati hanno potuto mettere in evidenza alcune criticità applicative alle fattispecie concrete delle norme citate, poiché il processo ha proprie peculiarità, che rispondono al contemperamento delle esigenze sopra evidenziate. Da un lato, come visto, di repressione del comportamento violento in danno della vittima, attivandosi la protezione solo successivamente al realizzarsi dell’evento dannoso; dall’altro, una ponderazione operata dal giudice, che giustifichi giuridicamente la limitazione delle fondamentali libertà in capo all’abusante, per il tempo necessario a far cessare l’abuso.
Certamente, la tempestività dell’intervento giudiziario è solitamente rispettata e garantita: entro quarantotto dal deposito del ricorso, viene emesso dal giudice un provvedimento, che può essere inaudita altera parte e successiva comparizione delle parti per conferma, modifica, o revoca dell’ordine già emesso in via d’urgenza; oppure di convocazione delle parti, instaurazione del contraddittorio, disamina del merito, con successiva emissione del provvedimento di accoglimento o di rigetto della domanda. L’accoglimento nel merito, come pure i provvedimenti di modifica o di revoca del decreto d’urgenza, possono essere impugnati presentando reclamo avanti al medesimo Tribunale (con la peculiarità che l’ordine di protezione rimane esecutivo per tutta la pendenza della fase del gravame).
La mia riflessione involge la necessità che l’avvocato difensore della vittima “istruisca” molto bene la fattispecie, allegando dettagliatamente i fatti posti a fondamento della domanda di protezione e fornisca una congrua documentazione a corredo del ricorso. Ciò per assicurare il successo della richiesta di emissione dell’ordine di protezione anche in via d’urgenza e, comunque, vada a buon fine la tutela del bene concretamente leso. Occorre, insomma, ben rappresentare la concatenazione di condotta – evento – grave pregiudizio – nesso causale. Sul concetto di grave pregiudizio, in particolare, è necessario che si sostanzi in un danno rilevante, inferto a quei beni giuridici individuati come degni di tutela, vale a dire l’integrità fisica, quella morale e la libertà di autodeterminazione. Con riguardo al grave pregiudizio all’integrità fisica, ad esempio, può trattarsi di lesioni materiali, condotte suscettibili di cagionare danni alla salute psico-fisica della vittima, situazioni che potranno essere provate per mezzo prove testimoniali, audiovisive, documentazione medica, copia della denuncia-querela presentata nei confronti dell’abusante. Esempi in giurisprudenza del pregiudizio all’integrità morale della vittima di abusi familiari sono stati rinvenuti nell’aver lasciato il coniuge/partner privo di mezzi economici, e ovviamente attraverso la costante e reiterata assunzione di comportamenti violenti, ostili, intimidatori (minacce di mali ingiusti, svilimento del ruolo genitoriale). Quanto al grave pregiudizio alla lesione della libertà, questa può essere intesa come libertà fisica, di movimento, di comunicazione, di espressione, di autoderminazione.
Tutto questo per dire che se non ben allegata, se non provata, se non circostanziata, la domanda di protezione potrà essere respinta, con tutte le conseguenze da essa derivanti, non da ultimo la possibilità di un acuirsi del conflitto familiare, con una possibile degenerazione del rapporto vittima/abusante. D’altro canto, talvolta, la difficoltà di reperimento di prove comporta una difficoltà rappresentativa di non poco conto, che potrebbe inficiare l’esito favorevole della richiesta dell’intervento giudiziario. Infine, merita ricordare che l’autorità giudicante, all’atto della valutazione delle allegazioni e delle produzioni eseguite dalla ricorrente, deve indagare sulla gravità del pregiudizio anche sul piano della eventuale reciprocità dei comportamenti offensivi.
Una seconda riflessione. L’effetto interruttivo dell’abuso familiare coincide con la finalità di impedire il protrarsi della situazione in danno della vittima, «mirando ove possibile al recupero del rapporto con l’abusante, indotto a riflettere sull’accaduto nel contesto di ripristino di una condizione di tranquillità all’interno del nucleo familiare minato dalla violenza»[5]. Infatti, il secondo comma dell’art. 342 ter c.c. prevede la possibilità per il giudice di ordinare, ove ne ravvisi la necessità, l’intervento dei servizi sociali o dei centri di mediazione. La disposizione normativa è in linea con la finalità riconciliativa che la Legge n. 54/2001, in fondo, persegue.
Per quanto mi riguarda, non ho avuto esperienza di casi in cui l’autorità giudicante abbia disposto l’intervento d’ufficio, ai fini di un tentativo di riconciliazione familiare, integrando in tal modo l’ordine di protezione. Personalmente, ritengo che, pur non escludendo in assoluto la possibilità di casi che possano rientrare in detta previsione, la violenza non sia mediabile. Anzi, in talune situazioni la mediazione familiare (per altri contesti sicuramente funzionale alla moderazione del conflitto, soprattutto genitoriale) potrebbe, nelle ipotesi di violenza domestica, essere uno strumento paralizzante la tutela giudiziaria e destinato a sottovalutare la gravità degli agiti maltrattanti e la loro possibile reiterazione.
La protezione giudiziaria è in sé da sola sufficiente?
Una terza riflessione. Non si possono, inoltre, trascurare altri aspetti che discendono e sono conseguenza della protezione contro la violenza domestica in ambito civilistico. Mi riferisco a tutto ciò che c’è dopo l’emissione dell’ordine di protezione, il contesto nel quale si inserisce, le dinamiche personali e familiari del post intervento giudiziario. Per solito, la vittima che ha ottenuto la protezione invocata, conferisce il mandato al proprio difensore per promuovere un procedimento giudiziale di separazione coniugale/cessazione della convivenza, anche al fine di dare concretezza e definizione giuridica ad un rapporto con il partner ormai compromesso, con richieste in ordine alla prole e agli aspetti economici.
Ma non è sempre così. Talvolta le vittime rinunciano (non solo in via preventiva, ma anche nella fase attuativa) a coltivare i propri diritti di auto determinazione, hanno paura delle conseguenze sui figli, del giudizio o dell’ostilità del resto della famiglia, delle lunghissime trafile processuali esecutive per il recupero di assegni di mantenimento mai pagati dall’obbligato, della solitudine e delle difficoltà di gestione della prole, del lavoro, della casa, di un futuro incerto.
Sono donne sole, non accompagnate nella consapevolezza, non supportate psicologicamente in percorsi di auto stima. Alcune di loro fanno rientrare definitivamente il partner in famiglia, senza che questi abbia compreso la gravità dei propri comportamenti o si sia fatto aiutare, ad esempio da un centro per uomini maltrattanti.
Le altre conseguenze della violenza domestica possono essere molteplici: la vittimizzazione di secondo grado, quando ad esempio l’azione giudiziaria intrapresa sia fallita e la donna patisce la sconfitta processuale e lo svilimento personale per non essere stata creduta; il problema della violenza assistita dai figli, con madri inconsapevoli o negligenti.
È, dunque, evidente come il solo intervento giudiziario, di per sé e da solo, non basti a fronteggiare un così vasto problema. La mia esperienza mi ha consentito di verificare che occorre fare affidamento su una rete quanto più vasta e capillare di agenzie pubbliche e private e su professionisti in soccorso delle fragilità che ineriscono la violenza domestica. Fondamentale è il supporto dei Centri antiviolenza e dei servizi sociali, organismi specializzati ed esperti con specifiche professionalità, competenti a contrastare il disagio familiare e personale.
I miei dubbi professionali, infine, mi hanno molto insegnato. Sono, talvolta, quelli di non avere saputo, a mia volta, prestare tutta l’attenzione che il caso richiedeva, limitandomi a dare ascolto senza approfondire; di avere tralasciato o sottovalutato la complessità umana di chi mi stava di fronte; di avere perso le traccia per anni di una mia assistita e di ritrovarla al punto di partenza, ormai devastata dalla depressione e dalla delusione; di figli coinvolti nella violenza assistita e, a loro volta, compromessi e condizionati nella crescita psicologica, senza che si sia fatto nulla per aiutarli.
Conclusioni.
La “prevenzione” del fenomeno della violenza di genere, è stato detto, si può attuare con l’educazione culturale, attraverso una metodica volta ad abbattere gli stereotipi basati sulla discriminazione di genere. Ci si augura che le giovani (e le giovanissime) generazioni di ragazze e ragazzi vengano aiutate a crescere in questa conoscenza di contrasto alla violenza di genere, anche precocemente, sin dall’educazione familiare, perché l’impatto del fenomeno della violenza alle donne sta diventando, come sappiamo dalle cronache purtroppo quasi giornaliere, un dramma della società italiana.
Le finalità protezionistiche, inoltre, comprendono anche l’esigenza di una formazione professionale alta, nell’assistenza sanitaria, in quella legale, in quella giudiziaria, in quella relativa a tutte le attività di supporto alle vittime di abusi, in grado di offrire tutela e superamento delle conseguenze insite nel fenomeno. Il percorso è ancora lungo. La finalità ha come obiettivo non solo il benessere personale di chi è o è stato vittima di abusi familiari, ma anche quello dell’intera collettività.
Stefania Tonini, avvocata, docente del Master Tutela, diritti e protezione dei minori
[1] La Convenzione fornisce all’art. 3 le seguenti definizioni: a. con l’espressione «violenza nei confronti delle donne» si intende designare una violazione dei diritti dell’uomo e una forma di discriminazione delle donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b. l’espressione «violenza domestica» designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima; c. con il termine «genere» ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; d. l’espressione «violenza contro le donne basata sul genere» designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; e. per «vittima» si intende qualsiasi persona fisica che subisce gli atti o i comportamenti di cui alle lettere a e b; f. con il termine «donne» sono da intendersi anche le ragazze di meno di 18 anni.
[2] Com’è noto, sono provvedimenti di carattere personale (cessazione della condotta, allontanamento dalla casa familiare, intervento dei servizi sociali) e patrimoniale (ordine di pagamento di un assegno periodico). Si tratta di misure dall’efficacia civilistica (la cui violazione comporta l’applicazione di una sanzione prevista per la loro inosservanza ex art. 388, primo e ultimo comma del codice penale), quale rimedio istantaneo di cessazione della condotta pregiudizievole all’incolumità fisica e morale della vittima. L’ordine di allontanamento dalla casa familiare rappresenta «lo strumento maggiormente incisivo per fare fronte alla degenerazione dei rapporti familiari, mirando ad evitare il reiterarsi dell’abuso con l’allontanamento dell’abusante e il divieto di farvi ritorno per il periodo di durata dell’ordine di protezione, senza fare ricorso a rimedi penalistici» Sul piano della misura patrimoniale, il secondo comma dell’art, 342 ter c.c., dispone che il giudice ordini all’abusante il versamento periodico di un assegno a contribuzione delle spese ordinarie per il sostentamento del nucleo familiare investito dall’ordine di protezione e rimasto privo di adeguati mezzi economici (Giovanni Maria Riccio e Giorgio Giannone Codiglione, “Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari”, Giuffrè, 2019)
[3] Giovanni Maria Riccio e Giorgio Giannone Codiglione, “Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari”, Giuffrè, 2019
[4] Giovanni Maria Riccio e Giorgio Giannone Codiglione, op. cit.
[5] Giovanni Maria Riccio e Giorgio Giannone Codiglione, op. cit.
(Foto di Giordano Pariti)