Il 21 Dicembre 2010 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 24 Marzo Giornata Internazionale per il Diritto alla Verità per le vittime delle gravi violazioni dei diritti umani e nel nome della dignità delle vittime. Tale data è stata prescelta in quanto proprio il 24 Marzo 1980 venne assassinato – mentre celebrava la messa – l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero di El Salvador, figura importante e strenuo combattente contro le violazioni dei diritti umani. L’antecedente all’individuazione di tale giornata va rinvenuto nello studio condotto nel 2006 dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, nel quale veniva sottolineato con forza l’aspetto centrale dell’inalienabilità e dell’autonomia del diritto alla verità per le vittime di gravi violazioni dei diritti umani e delle leggi che prevedono lo stesso, ciò implicando il dovere e l’obbligo per gli Stati di proteggere e garantire tali diritti entro i rispettivi ordinamenti, condurre indagini concrete per disvelare la verità, e garantire effettive modalità di riparazione e restaurazione degli stessi. Lo studio evidenziava altresì come l’affermazione del diritto alla verità contempli la necessità di conoscere la completa e piena verità così come le dinamiche degli eventi che hanno avuto luogo, le specifiche circostanze degli stessi, i soggetti che vi presero parte, le motivazioni da cui si originarono. In un successivo Rapporto delle Nazioni Unite pubblicato nel 2009, vennero evidenziate le migliori pratiche al fine di pervenire alla concreta implementazione di tale diritto, in particolare con riguardo all’archiviazione e alla registrazione dei documenti relativi tali violazioni, c l’elaborazione e la realizzazione di programmi di protezione dei testimoni e di altri soggetti coinvolti negli abusi e nelle violazioni.
Gli obiettivi che ci si è posti nella proclamazione della Giornata Internazionale sono molteplici: innanzitutto onorare la memoria delle vittime di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani, promuovendo l’importanza del diritto alla verità e del diritto alla giustizia; in secondo luogo, ricordare e commemorare pubblicamente tutti coloro che hanno dedicato la loro vita, spesso perdendola, nell’impegno e nella lotta per il riconoscimento, la promozione e la protezione dei diritti umani per tutta l’umanità; infine, appunto, riconoscere l’importante lavoro svolto dall’Arcivescovo Romero, ed i valori sottostanti lo stesso, con riguardo alle persone più vulnerabili, difendendo i principi della protezione della vita, della promozione della dignità umana ed opponendosi a qualsivoglia forma di violenza.
Va ora osservato come il tema della tutela dei diritti umani sia centrale, e peraltro non potrebbe essere diversamente, nella storia delle Nazioni Unite, nate proprio all’indomani della fine della II Guerra mondiale. Come è noto, risale al 1948 la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, promanata dall’appositamente costituita Commissione sui diritti umani, e fondata sul duplice principio dell’individualismo morale, ossia del centrale valore della persona contro tutti i totalitarismi, e del rispetto per la dignità di ogni essere umano. Il lungo elenco dei fondamentali diritti umani là presentato (a mero titolo di esempio: alla vita, alla libertà, alla sicurezza personale, all’uguaglianza di fronte alla legge, alla proprietà, alla libertà di pensiero e di espressione – religiosa, politica, etc. – al lavoro così come allo svago e al riposo, all’istruzione e alla partecipazione alla vita culturale) si coordina con la presenza di espressi divieti (alla tortura, ad ogni forma di discriminazione, all’applicazione retroattiva della legge penale), tutti contrassegnati dai caratteri dell’universalità, della intrinseca coerenza e tipicità rispetto alla natura umana, dell’inalienabilità e dell’indivisibilità. Tuttavia, va notato che pur costituendo ancor oggi un documento fondamentale, tale Dichiarazione mancò di nominare in modo esplicito ed inequivocabile il termine “vittima”: aspetto abbastanza strano se si pensa che appunto essa venne promanata al termine del conflitto mondiale che più di ogni altro produsse vittime; milioni e milioni di deceduti e sopravvissuti che chiedevano di essere riconosciuti, di essere ricordati. Al fine di superare tale mancanza, nel 1985 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dunque promulgato la Dichiarazione dei Principi Fondamentali di Giustizia per le Vittime del crimine e di abusi di potere, documento importante sebbene non vincolante per gli Stati Membri che tuttavia ha un significativo valore di indirizzo per le politiche interne ed internazionali in materia. Anche in questo caso è possibile evincere la centralità, sebbene non esplicitamente menzionata, del diritto alla verità per tutte le vittime, siano esse delle criminalità così come di abusi di potere, di forme di violenza strutturale.
Ora, avviandoci a concludere questa breve riflessione con riguardo alla Giornata Internazionale per il Diritto alla verità, occorre sottolineare che questo corrisponde altresì ad uno, forse il principale, dei bisogni emergenti la condizione vittimale. Esperire un crimine, così come un torto, un’ingiustizia, abusi di potere e finanche gravi violazioni dei diritti umani fondamentali comporta una cesura nell’esistenza della persona offesa: quel fatto, quell’evento (o serie di eventi) determineranno un “prima” e un “dopo” nel suo percorso di vita; come affermato da H. Arendt ne La banalità del male, “la vittima sente di non appartenere più al mondo”. Il mondo degli affetti conosciuti, sicuri, certi; il mondo governato da valori e principi radicati, rispetto ai quali era possibile fare affidamento, da norme e regole condivise, bussole di orientamento del proprio agire e tali supposte nelle relazioni con gli altri. La vittimizzazione, l’esperienza della violenza e della violazione della propria persona cancella ed annulla tali certezze; la vittima conosce una condizione di spaesamento, di perdita dei punti fissi dell’esistenza, ciò provocando l’emergere di bisogni specifici, prima non conosciuti ed ora essenziali al fine di poter tornare a ripensare la quotidianità entro un contesto comunitario che, validandone la sofferenza e il nuovo status, sappia riaccoglierla.
In tal prospettiva la verità non è soltanto un diritto che deve essere ripristinato; essa è anche un bisogno emergente la condizione vittimale, che traduce le tante domande comuni ad ogni vittima, indipendentemente dall’offesa patita: “cosa è accaduto’”, “perché è accaduto a me?”, “come è stato possibile ciò?”. Tale bisogno è intimamente legato al bisogno di capire, di comprendere e, insieme, di essere compresi. La vittima necessita di potersi esprimere, di narrare la propria storia, di raccontare e di essere ascolta, capita nelle proprie richieste e non giudicata. E’ in ciò, crediamo, che primariamente si configura il diritto alla giustizia, anch’esso un bisogno di ripristino a livello simbolico – interno ed esterno – di quell’ordine minacciato o andato infranto nella violazione, che non sempre e non necessariamente può trovare realizzazione e compimento all’interno dei procedimenti giudiziari penali al di là delle conclusioni cui questi pervengono.
E infine, il bisogno di verità è altresì legato a quello di cambiamento: un diritto per le vittime, un dovere garantirlo e favorirne l’attivazione per ogni società. Quella di “vittima” è infatti, a ben vedere, un’etichetta socialmente conferita che, non di rado, costringe il soggetto entro un ruolo non facile e nemmeno desiderabile. Un vocabolo che, fin dalle radici etimologiche (la crasi dei due verbi latini “vīncire” e “vincere”) rimanda ad immagini di passività, impossibilità a reagire, miseria, perdita di controllo, ripiegamento su sé stessi. Se non si vuole costringere la persona – o il gruppo sociale destinatario di tale definizione – a rivestire per sempre i panni dello sconfitto, della vittima immolata e sacrificale, del perdente (in una società che di fatto osanna ed empatizza solo coi vincitori), occorre non soltanto meramente accettare bensì impegnarsi per favorire – a tutti i livelli: socio-culturale, politico e giuridico – la possibilità che la persona dismetta tali vesti anguste per tornare a “pensarsi altrimenti”. Potendo percepirsi, e venendo percepita e considerata, non solo come soggetto segnato dalla sofferenza, ma soprattutto come persona che è sopravvissuta ed ha saputo imporsi ad un’esperienza negativa, al dolore e all’afflizione che ciò inevitabilmente comporta, ricevendo validazione dalla società e potendo infine ricostruire la propria esistenza. Facendo memoria di quanto avvenuto, senza tuttavia rimanerne ostaggio.
Susanna Vezzadini, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Bologna